Lo sviluppo della melicoltura industriale ha fatto una crudele selezione: cinque varietà coprono il 90% della produzione e le mele restano il simbolo della perdita di biodiversità. Ora arrivano anche le “mele club”, una trentina di varietà nuove come le Ambrosia, le Jazz, Modì, Evelina, Kanzi, Rubens o le più famose Pink Lady.
Torna il tempo delle mele. Difficile che l’annata potesse essere peggiore della scorsa, infatti produttori ricevono anche il doppio, ma ciò gli consente appena di pareggiare i conti. Il settore non se la passa benissimo e mentre registriamo che a Cavour (Cn) inizia la rassegna “Tuttomele” con in mostra anche le antiche varietà piemontesi (Presidio Slow Food), ci giungono brutte voci su come si stanno sviluppando alcune filiere del frutto più simbolico. Senza scomodare Adamo ed Eva, Newton o il dottore che si leva di torno, le mele oggi sono rappresentative soprattutto di come si sia ridotta la biodiversità di ciò che mangiamo. Troviamo principalmente cinque varietà, il 90% della produzione: le precoci neozelandesi Gala, le americane Stark, Red Delicious e Golden Delicious, arrivate in Italia negli anni Trenta, oppure le giapponesi Fuji, introdotte negli anni Novanta. Lo sviluppo della melicoltura industriale ha fatto una crudele selezione. Nel solo Piemonte c’erano più di 400 varietà, mentre oggi negli Stati Uniti delle 15.000 varietà conosciute solo undici coprono il 90% del mercato.
Ma non è finita, adesso ci sono le “mele club”: l’ultima follia agro-industriale. Sono una trentina di varietà nuove come le Ambrosia, le Jazz, Modì, Evelina, Kanzi, Rubens o le più famose Pink Lady. Sono brevettate e di esclusiva proprietà di aziende che vendono un pacchetto completo agli agricoltori: piante, fertilizzanti, fitofarmaci. Tutto è controllato e il margine di scelta di chi coltiva è nullo: anche il prodotto finale viene ritirato da chi possiede il brevetto e immesso sul mercato quando meglio crede. Un agricoltore non può vendere le sue mele dove vuole e al prezzo che ritiene giusto. Per ora il giochino funziona, infatti le mele club sono anche più care per il consumatore. Dicono che siano più selezionate, belle, di maggiore qualità, ma chi le coltiva non è libero e il giorno che s’imporranno prezzi svantaggiosi per tutti nessuno potrà impedirlo. Le club sono limitate e saranno sul mercato quando lo vorranno i loro proprietari. Questioni di marketing: ad esempio le rosa Pink Lady faranno capolino soprattutto a San Valentino. Noi intanto cominciamo a evitare le mele club sin d’ora, perché rappresentano un modello di agricoltura che non assicura né futuro, né libertà. Riscoprire le varietà locali così sarà ancor più piacevole e importante.
fonte: La Stampa- C Bogliotti