Dal caporalato al controllo della filiera economica, le mafie in agricoltura fatturano 25 miliardi di euro l’anno.
Le agromafie, che nel 2019 hanno fatturato 25 miliardi di euro, controllano un vero e proprio percorso criminale del cibo, che coinvolge attività a loro volta criminali, come la tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento lavorativo. Ma anche il caporalato in agricoltura, il riciclaggio di capitali illeciti attraverso il lavoro nero e grigio, il racket, l’usura a danno degli imprenditori in difficoltà, la gestione diretta dei mercati generali allo scopo di condizionare la borsa dei prezzi. Una rete che si estende ad ogni livello, e che solo la legge, la conoscenza e le buone pratiche possono smantellare. Per parlare della battaglia per l’affermazione della legalità Terra Madre Salone del Gusto, l’evento dedicato al cibo buono, pulito e giusto, organizzato da Slow Food, Regione Piemonte e Città di Torino, con eventi e conferenze online nei prossimi sei mesi, ha invitato Don Luigi Ciotti, sacerdote, giornalista e attivista sociale. Che, nel 1995, ha fondato Libera, associazione che si occupa di contrastare la criminalità organizzata, promuovere la cultura della legalità democratica e la giustizia sociale, valorizzare la memoria delle vittime delle mafie.
“A monte delle agromafie – spiega Don Ciotti – c’è il fenomeno del caporalato, ossia lo sfruttamento, anche in ambito agricolo, di manodopera. Secondo l’ultimo rapporto su agromafie e caporalato della Flai-Cgil, in Italia ci sono circa 450.000 persone che vivono in condizioni di sfruttamento lavorativo solo in agricoltura. Di queste, 130.000 sono tenute in condizioni para schiavistiche. I clan interessati sarebbero 27, per un fatturato complessivo di circa 25 miliardi di euro, con un balzo del 12,4% nel solo 2019, ed una crescita che sembra non risentire neanche della stagnazione dell’economia italiana ed internazionale. È una rete criminale che si incrocia con la filiera del cibo dalla produzione al trasporto, dalla distribuzione ala vendita, e che ha sempre più dismesso i suoi abiti internazionali per assumere apparenze, modi e metodi più consoni al mondo della globalizzazione finanziaria. Un mondo immateriale, anonimo, tecnologico, dove non vige il principio di responsabilità: ciascuno può mirare al profitto senza curarsi delle conseguenze sociali delle sue azioni sulla pelle degli altri. È un’ideologia para criminale, di cui le mafie sono da sempre maestre”.
A livello legale, per combattere il “fenomeno del caporalato, il nostro Paese si è dotato di una buona legge, la 199 del 2016, per la quale dobbiamo ringraziare le mobilitazioni e le lotte dei braccianti, specie stranieri, di tante belle realtà, ribellatesi tutti insieme allo sfruttamento, ai limiti dello schiavismo, al quale sono stati a lungo costretti. Ricordiamo – continua il fondatore di Libera – tra le altre la mobilitazione seguita alle violenze ai danni di alcuni braccianti africani anni fa a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, ma anche recentemente la ribellione degli sfruttati in Salento, guidati da uno studente del Politecnico di Torino, originario del Camerun. Il frutto di queste lotte è appunto la legge 199 del 2016, una norma di civiltà capace, quando applicata, di restituire libertà e speranza a donne e uomini che per anni hanno lavorato anche 14 o 15 ore al giorno per qualche centinaio di euro al mese, obbligati ad abbassare la testa davanti ai loro padroni, e a vivere in ghetti o baracche. Una vergogna. Oggi il contrasto del caporalato prevede responsabilità penali per lo sfruttatore, nonché la confisca ed il sequestro dei beni usati nell’attività criminale. Insieme agli aspetti penali, la legge cerca di riformare il sistema agricolo, mettendo insieme imprenditori seri, Istituzioni e mondo del lavoro”.
Ci sono però altri importanti passi da fare. “Intanto, in Consigli dei Ministri c’è un altro disegno di legge – dice il sacerdote – atteso da anni, che aiuta la battaglia contro le agromafie: si tratta del reato di agropirateria. La proposta si fonda sul concetto di tutela del patrimoni agroalimentare, inserito nel codice penale come nuovo bene giuridico. In sostanza, viene predisposta una rete di protezione più ampia di quella attuale, che tutela dalla contraffazione solo i prodotti Dop e Igp. Importante è la revisione del concetto di frode, che in passato era relegato alla consegna materiale del prodotto, mentre in futuro sarà allargata alle attività antecedenti, come ad esempio il ricorso ad indicazioni false e ingannevoli. Saranno sanzionati i casi di falso biologico e di falsa indicazione d’origine.
La criminalità organizzata nel settore agroalimentare – sottolinea Don Ciotti – è arrivata a controllare e condizionare l’intera filiera, dalla produzione all’arrivo delle merci nei porti e nei mercati, dal confezionamento alla commercializzazione. È un percorso criminale che coinvolge tante attività a loro volta criminali, quali la tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento lavorativo, e quindi i caporalato in agricoltura, il riciclaggio di capitali illeciti attraverso il lavoro nero e grigio, e ancora il racket, l’usura a danno dell’imprenditore in difficoltà, la gestione della rete dei mercati generali allo scopo di condizionare la borsa dei prezzi”.
Tra i punti di forza delle agromafie, c’è il fatto che, “a differenza che in altri comparti, le mafie in agricoltura spesso non sono in concorrenza tra di loro, ma si spartiscono equamente i proventi illeciti. Fanno cartello – riprende don Ciotti – determinando un’alterazione del mercato, tale da creare una sorta di monopolio all’insaputa di migliaia di persone coinvolte, a patire dai produttori. Le mafie lucrano da ogni passaggio, a volte avvalendosi della complicità di chi, sulla qualità di quelle merci, dovrebbe vigilare. Non vanno dimenticate le cose positive, ma va detto con chiarezza che ci sono complici a tutti i livelli, persone che per il guadano sono disposte a chiudere un occhio o a partecipare attivamente alla truffa. C’è un dato da ricordare: dal campo alla tavola il prezzo dell’ortofrutta si moltiplica per tre. Come contrastare tutto questo, al di là delle leggi – si chiede il fondatore di Libera – Sono fondamentali conoscenza e consapevolezza. Praticare un consumo critico vuol dire informarsi ed assumersi la responsabilità di acquistare prodotti buoni, anche dal punto di vista etico. Prodotti non legati a forme di sfruttamento delle persone, e neppure pagati al prezzo della loro dignità”.
Fondamentale, in questo quadro, al di là delle responsabilità personali di ognuno di noi, e delle nostre singole scelte, resta “la politica, che dobbiamo richiamare alle sue responsabilità, sollecitare meccanismi di controllo efficaci sulla qualità di ciò che mangiamo, certificazioni che restituiscano trasparenza a tutto il processo produttivo. Ci vogliono politiche alimentari adeguate, condivise ed interconnesse, con l’ambiente, l’agricoltura, l’educazione, la salute, l’economia, la giustizia, lo sviluppo. Se si fa politica per il cibo e per l’agricoltura – ricorda il sacerdote – si fa finalmente politica per tutti, si tutela il bene comune. L’agroalimentare è un settore importante, anche dal punto di vista economico, da solo vale il 17% del nostro Pil, ecco perché bisogna educare al cibo a partire dalle scuole, è inconcepibile che ne programmi scolastici non si parli di catena alimentare e di filiere: parlare di cibo significa parlare di identità, di territorio, di storia, di tradizioni, di sapori e di saperi di una terra, di un Paese. Cibo è geografia politica, è politica economica. Il cibo – conclude Don Ciotti – non può essere trattato come una merce qualsiasi, è parte della nostra anima e della nostra vita”. Fonte: WineNews, 12.10.2020