E(u)xploitation, un nuovo rapporto tratto dal riassunto di tre inchieste europee, prova a far luce sulle condizioni di lavoro nei campi e nelle piantagioni del nostro continente, raccontando problematiche e distorsioni di una filiera abusante
Una luce che non dovrebbe spegnersi mai, quella sullo sfruttamento agricolo che la pandemia ha brutalmente portato alla ribalta. Come succede cronicamente «Quando ci sono i morti sul campo o quando ci si accorge che senza la manodopera straniera la nostra agricoltura non sta in piedi» aveva dichiarato Fabio Ciconte in un articolo di quasi un anno fa. Non è la storia descritta da un generico e vago romanticismo agricolo fomentato dalla pandemia: il quadro presentato da E(u)xploitation e dalle sue 84 pagine aiuta a penetrare alcune delle dinamiche strutturali e sistemiche di quel buco nero che è l’agricoltura di larga scala.
Il rapporto mette in comunicazione i puntini di una mappa europea dello sfruttamento delle terre e della manodopera in agricoltura. Si delineano le facce di una stessa medaglia che restituiscono punti di contatto ma anche diversità tra i tre paesi interpellati: disorganizzazione, assenza di leggi e di controlli, intermediari e caporali, lavoro nero, lavoro sommerso e infine lavoro grigio, manodopera straniera, svalutazione dei prodotti della filiera, scarsa capacità imprenditoriale, prezzi al ribasso, GDO da una parte, frammentazione aziendale dall’altra. Sono solo alcuni dei tratti distintivi che fanno dello sfruttamento agricolo una storia da Sud Europa.
La faccenda si complica quando si considera che «In tutte le nazioni analizzate, la presenza di stranieri impiegati nel settore è molto elevata. Cifre e percentuali si perdono nei molteplici rapporti istituzionali. Si tratta di numeri al ribasso, spesso parziali, in cui si celano vaste sacche di irregolarità, che rivelano un settore in fase di riorganizzazione, in cui le condizioni lavorative sono strettamente legate alle politiche migratorie nazionali e sovranazionali». In questo modo la situazione delle campagne, delle terre e di chi le manovra non è solo una questione di frutta e verdura, di fragole e pomodori, ma un virus sistemico che intacca tutti gli strati della società: l’ambiente, l’alimentazione, il senso di comunità, i diritti umani, il lavoro e il salario, i rapporti fra gli stati, l’economia, il libero mercato e la concorrenza.
“E poi c’è la questione dei braccianti agricoli” è un ritornello che suona spesso nella narrazione delle filiere che portano il cibo a tavola. Un tema sgradito, respinto e solleticato a seconda delle esigenze politiche che trova un’urgenza inderogabile a causa del Covid. Citando il rapporto: «L’assalto ai supermercati a cui si è assistito in Europa e la riduzione della mobilità hanno fatto tremare produttori e Stati, preoccupati di restare senza manodopera nei campi». Ad un anno dall’inizio della pandemia (o quasi) fermarsi a raccogliere le fila di una crisi senza precedenti è doveroso.
Si parte dall’Italia grazie alle parole di Stefano Liberti e Fabio Ciconte, direttore di Terra!, associazione impegnata dal 2008 nella lotta allo sfruttamento in agricoltura e motore del rapporto. Siamo nella Piana del Sele, a 500 km a sud di Salerno, in un’area vocata alla quarta gamma che raccoglie i freschi pronti all’uso che si trovano sui banchi dei supermercati. Siamo poi nell’Agro Pontino, dove a produzioni in serra si affiancano quei novemila ettari di kiwi e il gigantesco MOF, il mercato ortofrutticolo di Fondi che sfama tutta Roma e mezza Italia. In questa terra lavorano, tra paghe a cottimo e lavoro grigio, sikh, romeni, tunisini e richiedenti asilo.
Arriviamo infine nei dintorni di Foggia, la provincia agricola più estesa d’Italia, tra pomodori e asparagi. Mentre cassoni di pomodori viaggiano per 150 kilometri verso le sedi di trasformazione in Campania, i braccianti vivono nei ghetti dove emergono risvolti inquietanti: «Le ispezioni compiute nelle aziende agricole della Provincia di Foggia hanno portato alla luce il fenomeno dei finti braccianti e lo sviluppo di imprese intermediatrici fittizie. Queste imprese sono rappresentate da cooperative senza terra che cioè non svolgono alcuna attività agricola, ma che hanno il ruolo di procurare a numerose persone l’iscrizione negli elenchi agricoli» scrivono gli autori. Un dramma nel dramma. Una torre di Babele da mettersi nelle mani nei capelli.
Siamo poi in Spagna con Mariangela Paone. Tra i filari bollenti di cocomeri della Murcia, dove le ETT, le società interinali spagnole, fanno intermediazione per le imprese che non vogliono oneri. Siamo nei campi di fragole e frutti rossi a Huelva dove si trovano migliaia di lavoratrici marocchine reclutate direttamente nella loro terra d’origine. È un modello d’impiego in cui la Spagna fa scuola, la contractatión en origine, che permette all’imprenditore di stipulare contratti direttamente nei paesi di reclutamento come il Marocco. Nel frattempo per le aziende agricole esplodono i costi ma c’è una costa che non si schioda: i prezzi, fermi al nulla cosmico, o qualche centesimo di più.
Siamo infine in Grecia, con Apostolis Fotiadis. Ancora fragole nel Sud-Ovest della regione, a Manolada, teatro di agguerrite proteste e casa-lavoro per migranti che prestano le braccia alla raccolta in condizioni igienico-climatiche precarie. Con Fotiadis si ripercorre il complesso sistema delle certificazioni richieste dalle grandi aziende ai fornitori «Uno strumento, o meglio un accordo ratificato tra un fornitore di prodotti ed un acquirente, sul rispetto di determinati standard»; ma anche il commercio sleale, i ritardi nei pagamenti, i dazi, il labirinto delle fatturazioni in cui produttori e lavoratori finiscono schiacciati. Così come negli altri paesi, l’intervento delle leggi non riesce ad incidere.
Una matassa di problemi che non si risolve solamente con una buona politica economica, ma parte da molto lontano: è in questo punto che i tre paesi convergono senza fare distinzioni. «Non riuscire a valorizzare nel modo giusto un prodotto agricolo d’eccellenza – scrivono Ciconte e Liberti – indebolisce fortemente il potere contrattuale degli operatori con gli altri attori della filiera agroalimentare, soprattutto con la Gdo. Se di un prodotto non si riescono a esaltare caratteristiche, il legame con il territorio di produzione e tratti distintivi, esso si trasforma in una commodity, una merce sovrapponibile ad altre di diversa origine […] In Italia il 70 per cento degli acquisti alimentari passa per la Grande distribuzione organizzata, percentuale poco più bassa se si considera il comparto del fresco».
Insomma alla fine la patata bollente finisce nelle mani dell’ignaro – forse non tanto ormai? – compratore. Assuefatto ad acquistare al ribasso e a divenire, a suo modo, attore dello sfruttamento. Incapace anche di attribuire un prezzo diverso, premiante e qualitativo, a materie prime che si mette in tasca con pochi centesimi: «Siamo abituati ad acquistare frutta e verdura a prezzi stracciati: la televisione, i social, le cassette della posta, sono invasi da pubblicità di prodotti sottocosto, offerte promozionali della Grande distribuzione organizzata (GDO). Spesso sono proprio i produttori a doversi fare carico delle offerte commerciali dei gruppi distributivi, dai quali sono costretti a vendere i prodotti a un prezzo irrisorio, che non copre i costi di produzione». Fonte: Linkiesta,Gastronomika, Lavinia Martini, foto Credits: Javier Fergo, 25.02.2021