Un piatto dalle radici antiche e dalle mille varianti e possibilità di espressione. Compresa quella dolce: l’avete mai provata morbida, come dessert?
I primi “polentoni” furono gli antichi Romani, additati come pultiferi per il largo consumo che facevano della puls, vera antenata della polenta prodotta con farro cotto e già arricchita con legumi (per lo più fave), pesce, formaggi o carne. Evolvendo nei secoli della cucina italiana, la polenta abbraccia l’ingegno di una gastronomia nutriente e di estrema economia. Il piatto odierno è il frutto di un avvincente cammino storico, tra memorie povere e sontuose tavole cardinalizie, passando senza soluzione di continuità dalle consuetudini popolari alle pagine manzoniane e giungendo – al di là di ogni luogo comune – a unire il nord e il sud della penisola.
Prima del mais: farro e orzo per i romani.
Lo conferma Seneca: “Pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos”, a significare “di polenta e non di pane” vissero a lungo i latini. La puls era, in contemporanea, cibo popolare, nobile e militare: se i poveri l’accompagnavano per lo più con le interiora, ai patrizi era servita con una farina di farro medio unito in cottura a uova, miele e formaggio dolce. Tuttavia, le sue tracce più antiche vanno ricercate nelle civiltà nuragiche della Sardegna (addirittura nel 3000 a.C.). Una diretta erede della puls latina è invece la maracucciata cilentana, identitaria di Camerota e prodotta con un cereale autoctono, il maracuoccio di Lentiscosa.
Nel Medioevo una prima evoluzione.
Non più solo farro o grano ma segale, orzo, miglio e, lungo la catena alpina, grano saraceno. Le citazioni si sprecano da un capo all’altro della penisola: un ricettario lucchese dell’VIII secolo cita una pulmenta di fave e panìco per i poveri, mentre pane e frascatula (a base di farina, grano e acqua) alimentò i messinesi stretti dall’assedio angioino del 1282). Diversi ricettari citano inoltre pulmente a base di avena, orzo o miglio prescritte ai malati. Nobile è invece la ricetta delle fave infrante nel Liber de coquina napoletano di inizio Trecento mentre, più a nord, una polenta di farro-spelta era preparata per il patriarca di Aquileia dal Maestro Martino da Como, il massimo cuoco-gastronomo dell’epoca. Dopo le scoperte colombiane, la coltura del mais dilaga velocemente in Europa e nel nord Italia: già nel 1570 l’Opera di Bartolomeo Scappi cita un “formentone” (il termine granturco arriverà nei secoli successivi) disponibile in grande quantità in Lombardia, e dà una prima ricetta di una “polenta concia” cotta “in latte di vacca ò capra con butiro”. La diffusione altolombarda del cereale è contestuale a quella veneta: va infatti ricordato che i confini della Serenissima in quel periodo giungevano a includere la Bergamasca. Nello stesso periodo il Concilio di Trento ebbe un ruolo notevole a suggerire il consumo del baccalà (giunto a Venezia dalle isole Lofoten con il mercante-senatore Pietro Querini già nel 1432) che troverà con la polenta un binomio inscindibile.
Polenta e baccalà
Bianca, gialla e nera.
Il colore della polenta è il giallo ma non ovunque. In Valtellina, in Alto Lario e nell’Alta Bergamasca è identitaria la taragna, che prevede l’uso della farina di mais insieme a quella di grano saraceno. Negli alpeggi è ancora cotta a legna, nel tradizionale paiolo di rame, arricchita con burro e formaggio (in particolare Casera o Bitto): addirittura il Manzoni la cita nei Promessi Sposi, cogliendo Tonio a preparare “una piccola polenta bigia, di gran seraceno” nella sua casa del borgo lecchese. In Valtellina è presente anche la più rara, ipernutriente polenta cropa, preparata con la panna in cottura, formaggio e patate, e sempre con panna e Casera e sola farina di saraceno si prepara la polenta ‘n fiur, dal caratteristico colore nero. Già nel Seicento, invece, si consuma in Veneto la polenta bianca preparata con farina di sorgoturco bianco, oggi sostituita dalla varietà di mais biancoperla. Anche il mais cambia colore a seconda delle varietà, dal bianco, al giallo al nero. Caratteristico, in Italia, è il mais rosso di Storo.
Polenta taragna cotta in alpeggio
Uncia e concia.
L’accompagnamento del formaggio con la polenta sopravvive dall’età latina, ma diventa caratteristico lungo l’arco alpino. In particolare, tra la Val d’Aosta e la Valtellina (passando per l’Alto Biellese e il Lago di Como) è diffusa la polenta concia/uncia preparata con abbondante burro e formaggio: un piatto più che sostanzioso, presente nella dieta quotidiana degli alpigiani per garantire la forza necessaria ad affrontare il rigido clima alpino. Scendendo in pianura, tra il Milanese e il Novarese è invece d’uso accompagnare la polenta con una fetta di Gorgonzola in fusione. Impossibile poi tracciare in poche righe un quadro completo degli abbinamenti con la polenta: è però utile soffermarsi sulle consistenze, estremamente eterogenee. Morbida da tagliare a filo (o servire a cucchiaio), fritta o grigliata. Particolare è il toc di Bellagio, una polenta solida che si mangia con le mani. La farina di mais entra anche nella tradizione dei dolci (dai biscotti di meliga piemontesi agli zaeti veneziani), mentre è possibile preparare anche una variante “dolce” della tradizionale polenta morbida come dessert.
È inoltre un elemento che ben si presta a ricette di recupero: con il fondo di cottura del toc si prepara un rustico fine-cena il ragel, scaldando vino rosso, liquori, chiodi di garofano, frutta a pezzi e zucchero nello stesso paiolo di rame, insieme ai rimasugli di cottura. Nella tradizione contadina, invece, era d’uso far rinvenire la polenta nel latte, consumando questo piatto soprattutto alla sera. Con la polenta avanzata si possono preparare anche gli gnocchi da servire con il burro fuso. Vanno oi citati assolutamente gli scagnuzzielli partenopei, forse la variabile più conosciuta della polenta fritta. Si tagliano a fiammifero o come piccoli triangoli e si fanno dorare con abbondante olio. Infine il pasticcio, da preparare in mille modi: due su tutti, con ragù o formaggio. Fonte: Gusto, Jacopo Fontaneto, 10.12.2021