Le aziende vinicole sono spesso alla ricerca di metodi di produzione che possano portare a un aumento qualitativo dei loro prodotti. Tra questi, inizia a farsi avanti l’affinamento del vino a elevate altitudini, una pratica di cantina utilizzata specialmente in Valle d’Aosta
Non c’è persona, tra i cogneins, gli abitanti di Cogne, che non sia legata alla storia della miniera di magnetite. E va detto, per onore di cronaca, che oltre a essere la principale fonte di sostentamento, quella che ha permesso a molti di non emigrare dalla propria valle, era qualcosa che si avvicinava a quella che oggi chiameremmo partecipazione al bene comune. Emmanuel César Grappein, medico ma soprattutto visionario e geniale direttore delle miniere, per alcuni precursore di un socialismo utopistico, impostò infatti una gestione di tipo comunitario, in cui estrazione, trasporto e vendita del minerale erano gestiti dalla comunità tutta, che ripartiva poi gli utili tra la popolazione, bambini compresi. Chiuse nel 1979, dal 2017 le Miniere di Cogne sono un luogo della memoria, un percorso tra storia e fatica tra le gallerie di Costa del Pino, che ogni anno affrontano centinaia di visitatori.
Senza questa premessa, non si capirebbe per altro l’adesione entusiasta di tre cantine valdostane alla proposta di affinare alcuni dei loro vini nella polveriera dove venivano conservate micce ed esplosivi a più di 2000 m. di quota, e a una temperatura di 7 gradi. «Si tratta di una sperimentazione in uno spazio affascinante» dice Richard Villaz, della cooperativa di Cave Mont Blanc di Morgex et La Salle. «Nonostante l’affinamento di uno spumante richieda due anni almeno, apriamo ora le prime bottiglie, dopo un anno, e il risultato non è male. Lo stesso vale per il nostro Blanc de Morgex et de La Salle, fatto con un cento per cento di Prié Blanc, unico vitigno autoctono valdostano a bacca bianca. Nei prossimi anni faremo altre prove: nella polveriera c’è molta umidità e dovremo verificare in che modo influisce anche la tipologia del tappo». Cave Mont Blanc ha una decennale esperienza nella vinificazione ad alta quota. «Abbiamo iniziato nel 2007 facendo delle prove al Rifugio Monzino con la «Cuvée des Guides», il nostro spumante classico, e con l’apertura della Skyway Monte Bianco ci siamo spostati ai 2173 m. del Pavillon, una sorta di Cave d’altitude dove non solo portiamo le bottiglie, ma facciamo parte della lavorazione, come il tirage (imbottigliamento), la prise de mousse (fermentazione in bottiglia) e, dopo 24 mesi, il dégorgement (sboccatura). Alla fine, lo spumante resta in quota fino a 36 mesi, e, vista l’esperienza maturata, possiamo dire che l’optimum lo otterremo con la vendemmia del 2018, ovvero a fine 2022, quando avremo “la bollicina perfetta”».
L’affinamento in alta quota permette infatti di mantenere intatte le caratteristiche organolettiche, mentre le bollicine diventano molto più fini. Il perlage è più piacevole e consistente. Non uno spumante, ma un «Petite Arvine» con uve provenienti da vigneti di Saint-Christophe e Aymavilles, il vino portato in miniera da la Cave des Onze Communes, 175 soci distribuiti in 11 comuni impegnati nella salvaguardia della viticultura di montagna; mentre La Crotta di Vegneron ha completato l’affinamento in quota di un «Fumin 2017» e di un «Chambave Muscat 2020». Si tratta di vitigni autoctoni coltivati in quota e su terreni di forte pendenza, emblemi di quella che viene definita viticultura eroica. Il Fumin, per esempio, vitigno autoctono a bacca nera, si coltiva fino a un’altitudine di 650 metri. Il moscato bianco di Chambave a 800. La Petite Arvine, dai piccoli acini che maturano tardivamente, resistente ai climi più rigidi e particolarmente vocata all’alta quota, può arrivare fino ai 900 metri.
La viticultura di montagna sta avendo il suo momento di gloria. Il cambiamento climatico fa guardare con interesse a quelle terre alte in cui si può ritardare la vendemmia e salvarsi dal grande caldo. Lo stanno facendo in Trentino, nelle Langhe, in Carnia. «Ci stiamo pensando anche noi» continua Villaz. «I nostri vigneti sono già in quota, considerato che abbiamo, nei trentatré ettari di La Salle e Morgex, dai 900 ai 1150 metri s.l.m., i vigneti più alti d’Europa, ma vorremmo riprendere a coltivare quelli che avevamo sopra a quota 1200, a Chatelard, sulla collina molto soleggiata di La Salle. Sono le condizioni di troppo caldo e umidità a imporlo. L’acino della nostra uva ha una pelle fine e delicata e soffre il marciume, la botrite o muffa grigia. L’alternanza di sole e pioggia porta alla peronospora della vite. Avremmo bisogno di caldo di giorno e fresco di notte, ma sempre più frequentemente registriamo notti calde anche in settembre, cosa che ci fa perdere anche in profumi e qualità».
Sarà l’alta quota a salvare la viticultura dagli eccessi del clima? Le viti dei ghiacciai saranno sempre meno eroiche e più normali? Mentre il Sopraquota 900 (sei mila bottiglie dalla vendemmia 2019) di Rosset Terroir, realizzato con uve raccolte a mano di un vigneto Petite Arvine che si trova ai 900 metri di altitudine di Cumiod, poi pressato e affinato in parte in anfora, in parte in orcio toscano, in parte in barrique, è stato eletto miglior bianco del 2021 dal Gambero Rosso (avendo anche ricevuto altri riconoscimenti internazionali), Villaz ammette che anche i francesi al confine stanno sperimentando la vinificazione in un rifugio di alta quota. I turisti con caschetto con pila e piumino che si fanno trasportare dal trenino un tempo utilizzato dai minatori tra i cunicoli e le gallerie della miniera di Cogne hanno la possibilità di terminare la loro visita con una degustazione sensoriale dei vini affinati qui. Probabilmente indifferenti alla valutazione tecnica, forse ignari dell’eroicità della viticoltura di montagna, ma sicuramente appagati di aver degustato quel che si dice una bella storia. Fonte: Linkiesta, Manuela Mimosa Ravasio, 02.09.2021