Da 16% a 70% in 20 anni. È la velocità del processo di concentrazione dell’industria sementiera mondiale. Mentre le mega-fusioni tra giganti del settore sono ancora in corso, le prime 4 aziende del comparto semi e agrochimica, dal business globale che sfiora i 100 miliardi di dollari (97, secondo le stime dell’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems), controllavano già nel 2014 il 75,6% del mercato.
Molti agricoltori, spesso vittime di sindrome di Stoccolma, sono rapiti da questo sistema che si avvia a divenire ulteriormente ostaggio di un combinato disposto che vede la chimica-genetica agganciata (d)a big data e costosi macchinari per cavalcare la nouvelle vague dell’agricoltura di precisione. Un quadro in cui la stessa sicurezza alimentare potrebbe divenire vittima, aprendo all’appropriazione del controllo sul sistema produttivo degli alimenti da parte di un pugno di corporations.
In Italia il fenomeno si affaccia, ma forse gioca ancora con le caricature: è questo il caso del grano duro, derrata intorno alla quale si stanno giocando intense partite nazionali in nome della Patria, evocata dagli uni e dagli altri con diverse declinazioni: pasta con solo frumento italiano vs qualità (italiana) perseguita con le migliori miscele di grani.
Su questo, è in viaggio verso Bruxelles un decreto del Ministero dell’Agricoltura (Mipaaf) che “introduce la sperimentazione dell’indicazione obbligatoria dell’origine per la filiera grano-pasta in Italia”, per citare il comunicato stampa del Ministero: in sostanza, l’etichettatura d’origine per la pasta, che marcherebbe un goal per i partigiani del grano nazionale, semmai la norma divenisse tale.
È in questo scenario che si inserisce la partita dei semi, correlata a quella dei premi e dei contratti. E a tutto quello che sfugge alle logiche ordinarie in cui si vuole serrare il mondo agricolo. Sorprendentemente, è tanto quello che sfugge. Per comprendere cosa e quanto sfugga, si può ricorrere a un altro Decreto Ministeriale, il cosiddetto “Fondo grano duro“, recentemente pubblicato in Gazzetta Ufficiale, che sancisce misure a favore delle produzioni di grano duro in filiera, prevedendo il vincolo di uso del seme certificato, ovvero di semente cartellinata dall’industria che la moltiplica e commercializza.
Il Mipaaf, in sostanza, stanzia 10 milioni di euro per il 2017 per un aiuto massimo di 100 euro a ettaro, per le aziende che sottoscriveranno un contratto di coltivazione con le strutture di stoccaggio e con l’industria di trasformazione sulla base dell’uso di semente certificata di varietà prodotte dall’industria sementiera. Cosa significa?
Che l’incentivazione deve correggere le “naturali” ritrosie del mondo produttivo che nell’ultima campagna granicola ha fatto registrare un tasso di impiego di semecertificato inferiore al 65%, come denuncia Assosementi, ossia l’industria del settore. Si pensi che il cosiddetto “accoppiamento degli aiuti Pac”, che agganciava i sussidi alla produzione, sino ai primi anni Duemila aveva spinto l’uso di seme ‘industriale’ nelle campagne del nostro paese sino a quasi il 100% delle superfici.
Si configura così un sostanziale doping di stato, a rimpiazzare quello comunitario ormai passato alla storia, reintroducendo gli incentivi sul grano duro con il vincolo di acquisto annuale di seme industriale, anche a sostanziale vantaggio delle ditte sementiere.
L’adesione al premio comporta infatti contratti di coltivazione e integrazione di filiera che si accompagnano all’uso di seme certificato (assumendo l’impegno per tre anni), richiedendo che l’agricoltore si integri in una catena produttiva e comportando – in maniera surrogata – l’acquisto annuale di semente, a fronte del proliferare di sistemi sementieri informali nei quali l’agricoltore si riproduce il seme in azienda.
Questa la tela di fondo, su cui si vanno tratteggiando altre storie, per esempio quelle di grande dinamica e successo fondate sul recupero di varietà locali e antiche, di miscugli di grani, di selezione partecipata con il concorso di agricoltori e ricercatori. Azioni che avvengono anche nel quadro istituzionale, incoraggiate da politiche regionali e progetti europei.
Ne sia esempio l’iniziativa della Regione Sicilia in cui l’assessore all’agricoltura ha dato il via a procedure di valutazione delle richieste di iscrizione di varietà da conservazione nel Registro nazionale delle sementi, con l’obiettivo di nobilitare le cultivar locali di grano dando vita a un sistema di trasformazione dei grani antichi in prodotti di alta qualità. Qualcosa che nel 2015 coinvolgeva solo in Sicilia tra i 3 e i 5 mila ettari a frumento, in gran parte biologici e in rapida ulteriore espansione.
Altro esempio è il progetto Life Ambiente dal nome Semente Partecipata, co-finanziato dall’Unione Europea, che lavora proprio in questa direzione, puntando a costituire popolazioni di grano duro a partire da circa 40 vecchie varietà italiane di frumento, attraverso incroci che mirano ad accelerare e “orientare” quanto avverrebbe normalmente in natura. L’obiettivo, strategico per la collettività così come per gli agricoltori, è la capacità di rispondere positivamente a stress climatico-ambientali e di esaltare le qualità nutrizionali e salutistiche dei grani e dei prodotti trasformati.
Le popolazioni di frumento che vengono ottenute si renderanno adatte ai singoli ambienti di coltivazione, resistendo meglio alle variazioni delle condizioni climatiche e si favorirà quindi un sistema produttivo che necessita di minori input energetici e interventi colturali, stabilizzando le produzioni nel rispetto dell’ambiente, oltre che lasciando il sistema nelle mani degli agricoltori.
L’utilizzo di varietà esistenti da tempo sul territorio, e quindi già adattate, e delle popolazioni ottenute con gli incroci, consente infatti non solo la salvaguardia della biodiversità coltivata, ma anche la diminuzione degli input forniti alla coltura e la conseguente riduzione delle emissioni di Co2 nell’ambiente.
I semi che derivano da questo processo di selezione sono molto plastici ed evolvono in modo differente a seconda dell’ambiente e delle tecniche di coltivazione (si dicono infatti popolazioni evolutive), permettendo agli agricoltori di arrivare in pochi anni a moltiplicarsi da soli i semi per soddisfare le caratteristiche peculiari delle singole aziende, o di singoli appezzamenti, ribaltando quanto il miglioramento genetico classico ha finora proposto: varietà selezionate per offrire il massimo di produttività in condizioni ottimali (come nelle stazioni sperimentali), ma incapaci di realizzare buone rese e di qualità in assenza di input chimici, come nel caso del biologico.
Si determina così la possibilità di mettere a coltura le aree più problematiche sotto il profilo agricolo, rivitalizzando il sistema produttivo e offrendo interessanti prospettive di reddito per tutti quei produttori che guardano all’emancipazione da filiere produttive i cui rapporti di forza li vedono inevitabilmente asserviti.
Il progetto Life Semente Partecipata, capitanato dall’Università di Firenze, si articola su 5 anni di lavoro, coinvolgendo 3 regioni (Toscana, Marche e Sicilia) e sta chiudendo in questi giorni le semine per il nuovo anno con i miscugli finora generati, che saranno progressivamente coltivati in numerose aziende nelle 3 regioni per osservare e adattare ciascun mix in una logica di condivisione di conoscenze e materiale genetico.
Scambio e condivisione, quindi, ma quando si parla di semi si può scivolare nella sedizione, come testimoniato dall’accordo di collaborazione sottoscritto da Assosementi con l’Ispettorato centrale della repressione frodi (Icqrf) volto al controllo delle attività illegali nel settore sementiero, quali, per esempio, “lo scambio di granella non certificata uso seme (che) costituisce violazione della normativa sementiera”, per dirla sempre con i comunicati stampa.
Il regime di semi libertà vigilata non si applica dunque sono al materiale genetico, ma anche agli agricoltori: scambio e riuso dei semi, pratica antica quanto l’agricoltura, anzi il suo presupposto millenario, o anche le misure di politica agricola e di incentivazione, rendono ormai gli stessi agricoltori in condizioni di libertà vigilata.
Il lavoro di rigenerazione della diversità coltivata, oltre a muoversi lungo il solco della resilienza dei sistemi produttivi, offre così anche opportunità di emancipazione dai vincoli normativi che ingabbiano i semi. E che possono aiutare anche il cibo a liberarsi da malconcepite catene alimentari.
fonte: Huffington Post, 23.12.2016, Luca Colombo, Segretario della Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica