Il nostro metabolismo è stato selezionato in migliaia di anni per far fronte alla carenza alimentare. Per questo si trova completamente spiazzato di fronte all’eccesso di cibo, e in particolare di due elementi fondamentali per il funzionamento del nostro corpo ma pericolosi quando presenti in grandi quantità: il sale e lo zucchero.
Il premio Nobel Paul Crutzen coniò il termine “Antropocene” nel 2000 per indicare l’attuale era geologica, evidenziando il ruolo del genere umano nel produrre modificazioni permanenti dell’ambiente terrestre nelle «sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche su scala globale e locale» Perché correlare la tematica dell’Antropocene al tema “cibo e salute”? In che modo le modificazioni imposte dalle discutibili esigenze dell’uomo postmoderno hanno modificato e stanno modificando le caratteristiche nutrizionali, e non solo, del cibo disponibile per gli abitanti della Terra? E ancora, quanto queste modificazioni hanno e avranno un impatto sulla salute delle popolazioni, a livello di territori apparentemente così distanti e diversi tra loro? Molto più di quanto tutti noi possiamo pensare e per questo tali questioni apparentemente molto tecniche e destinate alle considerazioni di esperti (medici specialisti in nutrizione e metabolismo, dietisti, tecnici delle filiere produttive alimentari) vanno invece comunicate ai cittadini/consumatori perché anche dal cambiamento delle nostre abitudini alimentari quotidiane può partire una proposta di miglioramento degli scenari futuri del mondo.
Ci è quindi richiesto di iniziare a riflettere, senza imposizioni o prescrizioni, su cosa mettiamo nel carrello o nella borsa della spesa, rendendoci più consapevoli degli effetti globali delle nostre scelte alimentari. Nel termine “globale” includiamo anche ambiti davvero apparentemente lontani tra loro: prevenire o combattere malnutrizione e diabete, ridurre le ineguaglianze e le disparità ancora presenti tra i lavoratori delle filiere agroalimentari, contribuire a preservare la biodiversità, combattere il riscaldamento globale, coltivare la tradizione e le culture locali e, ultimo ma non meno importante, preservare il concetto di curiosità e piacere nell’assunzione di cibo e nell’esperienza gastronomica quotidiana.
Come conciliare metabolismo quasi paleolitico e cibi postmoderni?
La storia del genere umano inizia circa 2,1 milioni di anni fa con la comparsa della specie Homo habilis, che si differenzia in modo sostanziale dai precedenti ominidi per modificate caratteristiche somatiche: diventato onnivoro, ha bisogno di un ridotto apparato mandibolare, a vantaggio di un incremento dello spazio disponibile nel massiccio faciale per accrescere lo sviluppo della scatola cranica. La forma più direttamente riconducibile alla nostra specie compare più tardi, intorno a 200 mila anni fa, con Homo sapiens. Pur con passaggi importanti sull’evoluzione della specie e sul miglioramento delle condizioni di vita e di salute (affinamento della caccia, scoperta del fuoco e iniziale micro-addomesticazione di piante e animali), l’alimentazione resta abbastanza costante per centinaia di migliaia di anni. Si definiscono questi gruppi di abitanti della Terra “cacciatori e agricoltori” in quanto le principali fonti di approvvigionamento sono proprio queste due attività, condotte per gran parte delle ore della giornata, probabilmente da gruppi differenziati per genere ed età, con una dieta mediamente basata su consumo quotidiano di tuberi, radici, piante, frutti selvatici, cereali selvatici, manna e altre secrezioni vegetali spontanee, miele o melate, associati in modo meno continuativo a cibi di origine animale consumati in modo saltuario, ma in elevate quantità non avendo ancora scoperto modalità di conservazione alimentare (piccoli e grandi prede, eventuali prodotti della pesca o della raccolta in laghi e fiumi). Le principali caratteristiche nutrizionali dell’alimentazione preistorica possono essere riassunte come segue:
– cibi a bassa densità energetica, molto ricchi in fibre, prevalentemente di origine vegetale nella quotidianità e saltuario consumo di grandi quantità di alimenti di origine animale;
– scarsa presenza di zuccheri semplici (a rapido assorbimento), presenti in piccole quantità in frutti selvatici e radici, nel miele, in alcune piante;
– scarsissima presenza di sodio (sale) per le popolazioni che vivevano lontane dal mare;
– elevato apporto di sostanze vegetali bioattive presenti nei vegetali selvatici;
– quando consumate, assunzione di carni di soli animali selvatici, a basso contenuto di grassi in generale e di grassi saturi in particolare.
Alcuni di questi elementi hanno fortemente influenzato le nostre vie metaboliche. Solo due esempi su cui torneremo in seguito: la scarsità di zuccheri disponibili ci ha portato a sviluppare vie “neo-gluco-genetiche” (cioè di produzione di glucosio da precursori non glucidici) per permettere un adeguato metabolismo energetico delle nostre cellule, per le quali il glucosio è il carburante più efficiente, mentre non sussisteva alcuna esigenza di attrezzarsi a gestire l’eccesso di zucchero, in quanto condizione impossibile a presentarsi. Analogo discorso per il sodio, abbondantemente presente in tutti i nostri liquidi corporei, necessario a mantenere forma, funzioni e vita delle cellule a ricordo di quell’ambiente marino-oceanico in cui si sono sviluppate le prime forme di vita per preservare, anche una volta uscite dal mare e trasferitici sulla terraferma, il cosiddetto milieu intérieur (i liquidi corporei a composizione fisico-chimica ben definita) o, per parafrasare suggestioni letterarie, “il mare dentro”. Anche qui nessuna simmetria metabolica: in un mondo a continuo rischio di carenze e apporti adeguati è sopravvissuto meglio chi riusciva a risparmiare (così si dice ancora oggi, anche dal punto di vista medico e clinico) il sodio con ogni possibile strategia. Nessun interesse a sviluppare un meccanismo compensativo verso l’eccesso, evento impossibile. Arrivati a quel cambiamento epocale di circa 8-10 mila anni fa rappresentato dal passaggio da “cacciatori e raccoglitori” a “agricoltori e allevatori”, con la conseguente profonda modificazione dell’alimentazione quotidiana, si sarebbe indotti a pensare che nel giro di qualche generazione il metabolismo del genere umano si sarebbe adattato rapidamente al nuovo menù. Ma così non è stato: i tempi di adattamento genetico a stimoli esterni così complessi avviene nell’ambito di centinaia di generazioni, dopo continue conferme della persistenza del cambiamento. Ma ecco che, prima ancora di accorgerci “metabolicamente” del cambiamento di qualche migliaio di anni fa, arriva la rivoluzione industriale (che dalla seconda metà del XIX secolo investe anche il cibo) e, soprattutto, la postmodernità alimentare (evento degli ultimi 50 anni circa) con un completo stravolgimento delle caratteristiche del cibo più facilmente accessibile.
Proprio come noi siamo confusi di fronte a cambiamenti degli stili di vita, di lavoro, di relazioni repentini e difficili da “assimilare”, anche il nostro metabolismo “ancora-quasi-paleolitico” subisce inerme le nostre inconsapevoli scelte alimentari. Con conseguenze intricate e complesse, perdendo in salute e benessere per noi e per il nostro pianeta.
Il “triplo onere” di malnutrizione pandemia silenziosa di obesità e diabete
Una delle definizioni più immediatamente comprensibili del termine “transizione nutrizionale” lo collega all’aumento dell’assunzione media calorica pro capite, riscontrata negli ultimi 50 anni circa in relazione al migliorato potere di acquisto dei cittadini e delle famiglie, almeno nelle società occidentali. Se da un lato questo sembrerebbe un obiettivo positivo e auspicabile, molti autori si sono soffermati su quanto abbiamo perso nella relazione col cibo in concomitanza con l’aumentata disponibilità calorica. Cibi fortemente trasformati industrialmente sono entrati rapidamente in conflitto con le competenze metaboliche, selezionate come abbiamo visto più sulla resistenza alla carenza alimentare, che sulla gestione dell’eccesso, con ricadute sulla salute. Ci hanno inoltre allontanato da conoscenze antiche ed esperienziali rispetto al cibo, basate su competenze transgenerazionali e su aspetti etnoantropologici. La conoscenza delle filiere alimentari si è rapidamente persa e il cibo è diventato un bene di consumo di cui si è perso il valore complessivo. La perdita di competenze ci ha disorientato nelle nostre scelte quotidiane, che si basano sempre più su nuovi criteri: pubblicità, packaging, mode, modelli associati a cibi fashionable, inducendo i consumatori ad acquisti eccessivi e sconsiderati, spinti anche dall’influenza del consumo alimentare (e anche dello spreco) all’incremento del pil.
Lanciando la “Decade di azioni sulla nutrizione” le Nazioni Unite, insieme a Fao (Organizzazione della Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e Oms (Organizzazione mondiale della sanità) hanno sottolineato come oggi la popolazione mondiale soffra per tre forme di malnutrizione, coesistenti e presenti sia nei Paesi a elevato reddito sia nei Paesi emergenti:1) la malnutrizione per eccesso, tradizionalmente definita come sovrappeso e obesità, che colpisce quasi un miliardo di persone, con un aumentato rischio di disabilità e mortalità per malattie cosiddette “non trasmissibili”, cioè non correlate a batteri o virus. Tra queste ricordiamo le malattie cerebro-cardio-vascolari (infarto, ictus, ipertensione per citare le principali), alcune forme di malattie neurodegenerative (demenze, malattia di Alzheimer), molte patologie tumorali (prevalentemente al colon-retto, alla mammella, al rene, anche se sono crescenti le evidenze che quasi ogni forma di tumore sia agevolata o accelerata nell’insorgenza nelle persone con obesità) e soprattutto il diabete di cui si dirà tra poco; 2) la malnutrizione per difetto, che ancora devasta quasi un miliardo di persone, generando mortalità perinatale e infantile, ritardi di accrescimento nella popolazione in età pediatrica, aumentata suscettibilità alle infezioni, ridotta aspettativa di vita. Da pochi anni non esiste più una così specifica separazione geografica delle aree flagellate da malnutrizione per eccesso e per difetto e, pur con prevalenze diverse, si trovano a coesistere praticamente in tutte le nazioni del mondo; 3) la malnutrizione per deficit selettivo di micronutrienti si associa spesso a una delle due precedenti forme, ma può anche presentarsi da sola e viene definita, in questo caso, malnutrizione invisibile. È caratterizzata da deficit di vitamine (acido folico, vitamina D, vitamina B12) o di sali minerali e microelementi (calcio, ferro, zinco, magnesio). Va ricondotta al deficit qualitativo di molti alimenti presenti sul mercato: il consumo prevalente di prodotti a lunga conservazione e pluri-processati o il ricorso a regimi alimentari monotoni e non variati sono tra le cause principali di questa subdola e pericolosa forma di malnutrizione.
In questo scenario una parola a parte merita la pandemia di diabete (spesso associato a obesità, tanto da avere generato il recente neologismo “diabesità”) per i numeri di persone potenzialmente coinvolte (circa 6 milioni di persone obese in Italia e più di 800 milioni nel mondo)
Il dato è più che raddoppiato se si considera anche il sovrappeso, per le ricadute sulla salute e sull’aspettativa di vita in salute, per i costi sanitari dei trattamenti di lunga durata necessari, i quali, se continuasse questo trend, potrebbero diventare insostenibili anche per i sistemi sanitari più inclusivi, come il nostro. Non stiamo parlando del diabete di tipo 1, molto più raro (4-5 persone su 100 affette da diabete soffrono di diabete di tipo 1), scarsamente correlato all’alimentazione e allo stile di vita, in quanto a origine prevalentemente autoimmune. Ci focalizziamo invece sul diabete di tipo 2, definito fino a circa 25 anni fa diabete senile e oggi diagnosticato con crescente frequenza anche in età pediatrica. È purtroppo l’esempio evidente della nostra incompetenza metabolica a gestire elevate quantità di zuccheri semplici, portando rapidamente in crisi un sistema che da centinaia di migliaia di anni è allenato a gestire molto bene le carenze di zuccheri e che si è trovato completamente spiazzato di fronte all’eccesso, spesso mascherato dietro cibi non così dolci al palato, ma ricchissimi in zuccheri aggiunti, bevande di consumo frequente o addirittura quotidiano, cibi fast eccetera. Spesso in buona compagnia di elevate dosi di sodio e di sale.
Sale e zucchero: dalla gestione parsimoniosa alla devastazione dell’eccesso
Abbiamo già visto come, tra le spinte evoluzionistiche che hanno operato per centinaia di migliaia di anni, sia stata molto forte la capacità degli appartenenti al genere umano di sviluppare buoni meccanismi di risparmio dei livelli corporei di sodio e di produzione di glucosio, il principale metabolita energetico per tutte le nostre cellule, a partire da componenti alimentari non zuccherine. Questo aspetto di tipo metabolico-energetico si è gradualmente affiancato a componenti culturali e antropologiche, che, nella piena consapevolezza del valore di queste sostanze per la sopravvivenza, ha portato a un uso attento dei nutrienti che le contenevano. Entrambi utili ed economicamente preziosi, sale e zucchero sono diventati non solo oggetto di attenzioni gastronomiche, ma – soprattutto il sale – anche di valorizzazione economica specifica: l’attività delle saline costiere del Mediterraneo, le vie del sale per il suo trasporto nelle zone interne del Nord Italia e Nord Europa con i numerosi toponimi ancora presenti nell’arco alpino (vie del Sale, passo dei Salati, Alpe Salero) e l’assimilazione della parola sale al concetto di valuta di scambio. In differenti lingue al sale si collegano direttamente concetti correlati al soldo (salario in italiano, salaire in francese, salary in inglese) a ricordo della paga del soldato romano parte in valuta e parte in sale, abitudine mantenuta in varie attività lavorative fino al Medioevo inoltrato. Anche in epoche a noi più vicine si era mantenuta la tradizione che i piatti che ne contenevano quantità importanti (carni essiccate o conservate, dolci tipici delle feste) fossero tradizionalmente utilizzati in momenti ben definiti dell’anno (Natale, Carnevale, Pasqua, feste del calendario rituale contadino), occasioni festive di comunità la cui caratteristica veniva ribadita con cibi non abituali. Tornando al nostro metabolismo, per quanto riguardo il sodio, il rene ne è stato da sempre la principale stazione strategica di risparmio, attraverso meccanismi di riassorbimento di gran parte del sodio dalla cosiddetta “preurina”, il primo filtrato della parte iniziale del rene, che viene successivamente modificato nella sua composizione chimica, sottraendo ulteriormente le sostanze da preservare, tra cui il sodio e lo zucchero, e secernendo attivamente sostanze da allontanare, come l’urea derivante dal metabolismo proteico. Non è casuale che proprio il rene sia il principale organo bersaglio in situazioni di eccesso di sale (l’ipertensione trova nel danno renale molto spesso la sua origine) e di zucchero (tra le complicanze tardive, ma frequenti, del diabete c’è la cosiddetta “nefropatia diabetica”, un coinvolgimento del rene nella malattia diabetica, che oggi costituisce la prima causa di dialisi in molti Paesi occidentali). L’industria alimentare, nata principalmente dalla necessità di garantire l’approvvigionamento alimentare di famiglie in cui l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro interrompeva la catena di accudimento alimentare presente da migliaia di anni, impara a conoscere e apprezzare molto presto zucchero e sale. Inizialmente ripropone e riproduce in impianti molto più grandi le modalità di preparazione tradizionalmente utilizzate, poi, perde la connotazione inizialmente caratterizzante di “alimentare” e si uniforma al concetto di industria, iniziando a interessarsi più ai dividendi degli azionisti che alla salute dei consumatori, adeguandosi alle strategie produttive di un bene di consumo generico. In questo ha un nuovo alleato, inizialmente sviluppatosi per sostenere e indirizzare il genere umano nella scelta alimentare preferibile, che ora incredibilmente viene sfruttato per promuovere il consumo di prodotti spesso lontani dal concetto di salute e benessere: il gusto.
Il gusto: un alleato in crisi
Il gusto, spesso ricondotto esclusivamente alla presenza di specifici recettori a livello orale e non solo, è in realtà una modalità complessa ed estremamente evoluta di relazione col cibo e con suoi numerosi aspetti (consistenza, piacevolezza istintiva, temperatura e gusto in senso stretto). La graduale conoscenza delle basi molecolari del gusto ci permette oggi di poter descrivere le componenti chimiche, anatomiche e fisiologiche e ricondurre essenzialmente a sei tipologie di “gusti”, spesso tra loro combinati in relazione alle differenti componenti di un alimento introdotto: dolce, salato, grasso, umami (proteico-glutammico), amaro e acido. Nel percorso evolutivo, ricordandoci delle ricerche di cibo da parte dei nostri progenitori cacciatori-raccoglitori, il gusto ha costituito uno strumento potente e insostituibile per la prima valutazione dell’adeguatezza di quanto raccolto: buono/cattivo, utile/dannoso, innocuo/pericoloso. A questo poi si aggiungevano le sensazioni tardive di benessere o malessere collegate ai vari alimenti assunti. Si tratta quindi di una competenza istintiva e innata, come è ben percepibile nel neonato ancora non condizionato da esperienze personali complesse o da influenze culturali. Proviamo attrazione netta, transgenerazionalmente acquisita, proprio verso quei gusti che ci orientano alla presenza di nutrienti utili per la sopravvivenza nostra e della specie, che, lo ricordiamo, dal punto di vista evoluzionistico non ha mai avuto il problema di dover gestire gli eccessi di questi nutrienti, ma il contrario. Per questo ci attirano il dolce e il salato, sono piacevoli il grasso e il proteico, ci turbano o ci repellono l’amaro e l’acido. Non stiamo parlando di palati sensorialmente evoluti e affinati, ma appunto di sensazioni istintuali e non cognitivamente mediate. Lavorando su questi istinti, con una sapiente combinazione di zucchero e sale, grassi spesso non salutari e una consistenza “facile” al palato, un certo tipo di industria alimentare si è accaparrata l’interesse del consumatore fidelizzandolo, fino a renderlo diffidente verso cibi qualitativamente migliori, ma connotati da sensorialità più naturali e meno costruite. Non si vuole in questa sede demonizzare l’industria alimentare in toto: molte aziende, con l’ausilio di esperti di vari ambiti, stanno riformulando i loro prodotti e l’ingredientistica alla luce delle innegabili evidenze scientifiche disponibili. Va però ricordato che esistono ancora sul mercato prodotti molto poco salutari, che fanno leva proprio sulla sensorialità innata: molto ricchi sia in zuccheri sia in grassi (siano essi classificati come prodotti definibili dolci o salati) per creare piacevolezza e veicolare bene eventuali aromi aggiunti, ricchissimi in sale sia per la stimolazione dei recettori sia come adiuvante della conservazione, spesso in associazione con sostanze chimiche di sintesi. Ecco dunque che quello che è sempre stato un nostro alleato, il gusto, è oggi in crisi.
L’infiammazione cronica di basso grado e la dieta occidentale
Tra i meccanismi di difesa selezionati nel corso degli anni di evoluzione come favorevoli e protettivi va ricordata anche l’attivazione infiammatoria. La cosiddetta infiammazione cronica di basso grado non costituisce un evento “visibile” e non va confuso con infiammazioni localizzate e caratterizzate da aree di gonfiore o arrossamento. Si tratta di un’attivazione di allerta in relazione a stimoli nocivi esterni nei confronti dei quali si attivano plotoni di sostanze che agiscono sulla vascolarizzazione dei tessuti e sull’attivazione immunitaria per proteggere le funzioni vitali. Si tratta quindi di una risposta positiva se circostanziata e limitata in relazione a un evento transitorio. Tra le inattese novità dei nuovi assetti metabolici indotti da cibo non adeguato e sedentarietà è stata descritta ormai da alcuni anni l’infiammazione cronica di basso grado, che costituisce un’attivazione minima o comunque sub-massimale sostenuta da agenti esterni vari, tra i quali oggi includiamo anche un’alimentazione non adeguata. Questa risposta, se mantenuta per lunghi tempi, si trasforma da protettiva in dannosa, costituendo una via iniziale comune di differenti patologie che si sviluppano in relazione a predisposizione genetica o esposizione a sostanze nocive o tossiche; tra questi le già citate malattie non trasmissibili di tipo cronico-degenerativo a carico di vari organi e apparati e alcune forme tumorali. In relazione al cibo, cos’è che promuove e sostiene questa infiammazione silente? Gli attori protagonisti sono sempre gli stessi: l’eccesso di zuccheri, una scarsa assunzione di fibre, un insufficiente apporto di vegetali freschi e di stagione, un apporto eccessivo di grassi saturi o di grassi industrialmente processati (come alcune margarine), sia visibili sia nascosti in alimenti che ne sono ricchi. In pratica i componenti principali della dieta occidentale, povera in alimenti freschi, ricca in alimenti processati a elevato contenuto di sale e zucchero e di grassi poco salutari. Partiamo dagli zuccheri, aggiungendo un’ulteriore nozione: mentre abbiamo già ricordato numerose vie metaboliche per la produzione di glucosio in caso di carenze, la nostra asimmetria si esplicita con un unico strumento di gestione degli apporti costantemente elevati di zuccheri semplici, la produzione di insulina. Questo ormone, utilissimo se prodotto in quantità moderate, presenta effetti collaterali se cronicamente stimolato fino a mantenere elevati livelli costanti nel sangue circolante. Diventa promotore dell’infiammazione cronica attraverso complessi meccanismi: agisce come fattore di crescita promuovendo un aumento del numero e del volume di molte cellule (fatto molto importante durante l’accrescimento ma non auspicabile in età adulta) e può presentare deficit nella sua azione principale di controllo dei livelli di glucosio circolante, la cosiddetta glicemia, fino a diventare inadeguato, come succede nelle fasi avanzate del diabete di tipo 2, che per questo viene anche definito diabete insulino-resistente. La contemporanea scarsità di fibre alimentari, la cui principale fonte sono i cereali nativamente integrali, i semi oleaginosi, la frutta secca, la verdura e la frutta, rende i picchi di rialzo glicemico nel sangue ancora più consistenti, richiedendo ulteriori rilasci di insulina. Su questi aspetti fisio-metabolici si fonda il concetto di indice glicemico: è un numero da 1 a 100 che indica il rapporto percentuale tra il rialzo glicemico indotto da un determinato alimento in relazione a quello generato dalla fonte più rapidamente assorbibile di zuccheri, una miscela di acqua e glucosio (posta pari a 100). È un concetto molto utile per capire la salubrità degli alimenti contenenti carboidrati, cioè sia zuccheri nella forma semplice sia zuccheri complessi, come gli amidi. Se infatti chimicamente tutti gli amidi sono simili, dal punto di vista nutrizionale alcuni creano una più rapida salita dei livelli di glicemia, in relazione al livello di trasformazione e lavorazione dell’amido stesso. Alcuni esempi ci possono aiutare a capire: un pane integrale prodotto artigianalmente ha un indice glicemico molto più contenuto di un pane industriale prodotto a partire da farine raffinate, la pasta mantiene indici glicemici inferiori se consumata al dente mentre raggiunge indici glicemici più elevati se molto cotta. L’indice glicemico è molto utile per capire quali sono gli alimenti più adeguati a un consumo quotidiano (quelli con indice glicemico inferiore a 50-55), un consumo più saltuario (fino a 70) o davvero solo occasionale o in concomitanza con attività fisica importante (superiore a 70), per questo sarebbe utile riportarlo sulle confezioni degli alimenti, come stanno già facendo alcuni Paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda. Per contrastare l’infiammazione cronica sono poi utilissimi i vegetali freschi, soprattutto se consumati in stagione ed evitando lunghi tempi tra raccolta e consumo. Noi ne beneficiamo soprattutto se seguiamo la semplice regola del “doppio 5”:– assumere nella giornata almeno 5 porzioni tra verdura (almeno 3) e frutta (massimo 2);– variare nella settimana i 5 colori della salute, alternando vegetali di questi 5 gruppi cromatici: rosso, bianco, verde, giallo-arancio e blu-porpora-violetto, così da ottimizzare l’assunzione di sostanze protettive su differenti organi e apparati. Infine, qualche parola sui grassi: una fonte concentrata di calorie, quindi da assumere con moderazione, ma senza demonizzazioni assolute. Quelli più salutari sono quelli insaturi: i monoinsaturi dell’olio extravergine di oliva e i polinsaturi della frutta secca, dei semi oleaginosi, del pesce, preferendo però pesci di piccola taglia e dal ciclo vitale breve per evitare l’assunzione di metalli pesanti e residui chimici. Il pesce azzurro potrebbe essere la scelta migliore.
Diete sane e sostenibili: la lezione delle “zone blu”
La buona notizia è che non esiste una dieta buona per la nostra salute e un’altra che preserva il pianeta. È quello che è stato definito effetto win-win nella ricerca su un modello di dieta adeguata a entrambi gli obiettivi, la cosiddetta dieta planetaria, studiata da un gruppo di esperti internazionali che hanno descritto un modello che, nella sua innovazione scientifica, recupera gran parte dei saperi tradizionali sul cibo e l’alimentazione (si veda il sito della EAT-Lancet Commission on Food, Planet, Health).Provando a cimentarsi nella difficile ricerca di elementi comuni alle diete tradizionali a livello globale, emergono, soprattutto nelle alimentazioni riconosciute dall’Unesco come patrimonio dell’umanità (mediterranea, giapponese e messicana), alcune caratteristiche comuni
– abbondante consumo di cereali integrali, verdura e frutta;
– moderato consumo di proteine di origine animale;
–consumo prevalente di grassi insaturi da cibi vegetali e pesce, con moderazione;
–competenze diffuse sulla preparazione quotidiana di pasti semplici a livello domestico, evitando piatti pronti;
– consumo prevalente di alimenti locali e di stagione;
– stile di vita attivo, componente non alimentare, ma fortemente connessa.
Se analizziamo queste caratteristiche in parallelo con le principali indicazioni scientifiche sulla riduzione del rischio di contrarre malattie cardiovascolari, oncologiche, neurodegenerative, diabete e obesità riscontriamo un incredibile somiglianza, come se i saperi tradizionali avessero in qualche modo anticipato, su base esperienziale, i saperi accademici su cibo e salute. Tra i vari modelli alimentari tradizionali emerge un ruolo molto importante della dieta mediterranea, prezioso patrimonio culturale fortemente legato al territorio e alla cui base vi sono la convivialità, le pratiche sociali e gastronomiche, in cui il cibo diventa un mezzo di relazione sociale, di unione e di condivisione. La menzioniamo, in particolare, come paradigma di dieta sana e sostenibile in quanto garante di quattro ambiti che devono essere tutti presenti per caratterizzare un pattern dietetico sano e sostenibile: influenza positiva sulla salute, ben evidenziata in relazione alla prevenzione cardiovascolare e oncologica; impatto favorevole sull’ambiente, per salvaguardia della biodiversità, contenimento degli sprechi e promozione della frugalità, minor impiego di risorse naturali in relazione al consumo prevalente di alimenti di origine vegetale; valorizzazione di aspetti sociali, quali la convivialità, le ritualità correlate al cibo, la promozione di identità e incontro attraverso l’atto alimentare; benefici economici: ridotto costo delle materie prime, risparmio sulle spese sanitarie correlate a patologie cronico-degenerative, promozione di piccole e medie attività produttive locali. E forse non è un caso che due delle cinque zone blu studiate nel mondo si affaccino proprio sulle coste del Mediterraneo. Le zone blu, aree a maggior concentrazione di pluricentenari in salute nel mondo, sono oggetto di studio a partire dalle prime evidenze scientifiche promosse da Pes e Poulain all’inizio di questo millennio. Le cinque aree sono l’arcipelago di Okinawa in Giappone, l’Ogliastra e Barbagia in Sardegna, l’isola di Icaria in Grecia, la penisola di Nicoya in Costa Rica e la comunità di Loma Linda in California. Si tratta di aree caratterizzate da un forte isolamento geografico (le prime quattro zone blu elencate) o culturale (nel caso di Loma Linda), con evidente mantenimento di un vantaggio genetico di popolazione. Le abitudini alimentari sono in parte simili, malgrado la lontananza geografica: prevalente consumo di cibi vegetali con elevato consumo di legumi su base quasi quotidiana, minimo consumo di zuccheri aggiunti, proteine animali prevalentemente da alimenti lattiero-caseari fermentati naturalmente e prodotti della pesca. Il forte senso di appartenenza delle comunità delle zone blu e la condivisione di valori avvantaggia trasversalmente queste popolazioni in relazione ai loro stili di vita e di consumo.
Concludiamo a partire da alcune parole chiave
Pare ormai scontata l’importanza della varietà, insieme alla stagionalità e localizzazione dei consumi. Aggiungiamo alcuni ulteriori spunti da tenere a mente quando scegliamo cosa mettere nel carrello della spesa, virtuale o reale che sia. Bilanciamo le scelte vegetali (prevalenti) e quelle animali, privilegiando quantità contenute di alimenti di origine animale di quali-tà, prodotti nel rispetto del benessere degli ecosistemi. Accorciamo la catena di approvvigionamento, rivolgendoci quando possibile ai produttori o trasformatori senza intermediari e impariamo ad apprezzare il “cibo imperfetto”, spesso destinato a diventare rifiuto per minime carenza puramente estetiche, a vantaggio di risparmio economico e immodificate proprietà nutritive. Infine dedichiamo tempo a scegliere, preparare, allestire e gustare cibi cucinati sul momento, il tempo utilizzato in queste occupazioni è un investimento che ci permette di guadagnare salute per noi e per il pianeta. Fonte: ANDREA PEZZANA da MicroMega “Il cibo e l’impegno” n° 5