L’attività dei monasteri ha influenzato la tradizione alimentare italiana. Sono molte le ricette nate dal lavoro di frati e monache che ancora oggi mangiamo, ancora di più le tracce della loro attività nella produzione e conservazione dei cibi
Abbazia di Fontenay, foto di Peter Herrmann su Unsplash
Centinaia di conventi e monasteri sono sparsi su tutto il territorio italiano, da Nord a Sud, vicino al mare o arrampicati sulle più alte montagne. Logico dedurre che con la loro attività frati e monache nel corso dei secoli abbiano influenzato profondamente la cultura alimentare nel nostro Paese. Quando pensiamo alle cucine dei monaci, spesso immaginiamo frati gaudenti intenti a bere birra o, all’estremo opposto, asceti che non toccano cibo: la realtà è ben diversa. Tutti gli eccessi erano banditi.
Inoltre, l’economia sulle risorse a disposizione e lo studio metodico di tecniche per la conservazione degli ingredienti portavano a evitare gli sprechi e davano la possibilità di destinare un surplus alla carità verso i poveri e all’ospitalità dei pellegrini. I piatti così creati sono ancora parte della nostra gastronomia, ma non basta: l’attività dei conventi ha segnato profondamente la produzione e l’agricoltura in Italia.
Dai campi e nelle stalle
Abili costruttori, architetti, alchimisti, botanici, pazienti ricercatori, esperti nel coltivare i campi come nell’allevare il bestiame, i monaci hanno influito per secoli sull’assetto strutturale del territorio.
Le colture ordinate ed efficienti dei monaci hanno salvato nei secoli dell’alto Medioevo le campagne dalle invasioni, dalle guerre, dalle pestilenze e dall’incuria. Dove non arrivava più l’Impero Romano arrivavano i monaci, che garantivano alle loro terre la manutenzione quotidiana di sentieri e fossati e realizzavano opere di disboscamento, dissodamento e irrigazione.
I monaci ripresero, rilanciarono e ampliarono le vecchie colture, come l’olivo e la vite, rendendole più redditizie; implementarono la produzione di cereali; coltivarono in modo sistematico e intensivo la frutta e la verdura, in modo da poterne destinare parte al commercio.
Da non sottovalutare poi l’attività di albergo per i pellegrini, ospedale e ricovero svolta dai monasteri: le mura dei conventi si aprivano sul mondo esterno, lasciando entrare idee e materie prime e lasciando uscire quanto di cibi e vivande veniva distribuito in beneficenza: «Noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi», dice fra Galdino nei Promessi Sposi. L’impatto sul territorio era enorme.
A questo si aggiungeva l’attività di conservazione degli alimenti: da un allevamento sempre più fiorente nacquero molti formaggi. Ne è un esempio il grana, le cui origini sono legate a una produzione di latte talmente abbondante da essere superiore alle esigenze della popolazione, ma che andava conservata e valorizzata. Ma non è certo il grana il solo formaggio “inventato” dai frati: basti ricordare il Montasio nell’abbazia di Moggio Udinese, la mozzarella in quella di San Lorenzo di Capua; e poi, in Francia, Brie e Livarot, Trappiste, Munster e Pont-l’Évêque.
L’arte di conservare non si ferma certamente a questo, ma si estende ad abbracciare le marmellate, le confetture, i liquori, i vini e la birra, prodotta dai frati non in Italia ma nel Nord Europa, per conservare e sfruttare una grande produzione di cereali.
Nelle cucine e nelle dispense
L’alimentazione di frati e suore era rigidamente normata per quanto riguarda orari dei pasti, quantità e tipologie di cibi serviti. Non solo. Il calendario liturgico imponeva restrizioni legate al digiuno settimanale, che permetteva di consumare un solo pasto al mercoledì e al venerdì (più avanti solamente il venerdì).
Altre limitazioni riguardavano Quaresima, Avvento, Vigilie e a altre ricorrenze in cui veniva raccomandata l’astinenza dalla carne in tutte le sue varianti. Indicazioni che venivano estese al di fuori delle mura conventuali e che portavano a una grande attenzione nei confronti degli ingredienti alternativi alla carne: dal formaggio alle uova e al pesce, ma soprattutto verdure e legumi. Questi insieme al pane e ai cereali rivestivano un ruolo da protagonisti nell’alimentazione dei monaci.
Quando diciamo “nutrirsi di radici ed erbe” pensiamo ad asceti che raccolgono piante selvatiche amarissime: in realtà le “radici” altro non sono che carote, cipolle, rape, ravanelli, mentre le “erbe” sono semplicemente e genericamente ortaggi a foglia verde.
Sulle tavole dei conventi erano sempre presenti le zuppe e le minestre, preparate con verdure di stagione, cereali e pane. I pani, grandi, adatti a conservarsi a lungo, venivano cotti nei forni interni a monasteri e abbazie, che spesso lavoravano anche per il contado. E accanto al pane nei forni si cuocevano le gallette, i biscotti e altre specialità da serbo, che spesso venivano consegnate ai pellegrini perché potessero sostentarsi lungo il loro cammino.
E nei forni si cuocevano molti tipi di dolci, dedicati ai giorni di festa; ogni ordine aveva le proprie specialità, e frati e suore nel volgere del tempo si specializzarono nel confezionare preparazioni che ancora oggi sono spesso protagoniste delle tradizioni legate alle ricorrenze religiose: dolci che talvolta potevano essere sagomati a rappresentare agnelli pasquali o frutti freschi, reliquie di santi o croci e a sottolineare il legame strettissimo tra festività e calendario liturgico.
Qualche esempio? La ricetta “ufficiale” della pastiera napoletana è frutto del lavoro delle suore del convento di San Gregorio Armeno, che la preparano fin dal Settecento, mentre quella degli struffoli è da attribuire, pare, alle monache dei conventi napoletani della Croce di Lucca e di S. Maria dello Splendore. La pasta di mandorle è specialità delle monache della Martorana, a Palermo, che almeno dal Cinquecento preparano i bellissimi frutti; i brigidini all’anice, tipici di Pistoia, furono inventati nel sedicesimo secolo dalle suore di santa Brigida. Ma ci sono anche le minne di vergini del convento di Alcamo, che abbiamo visitato e fotografato, a base di ricotta cioccolato e cannella.
Altra specialità tipica dei conventi sono i liquori: i laboratori di farmacia lavoravano a trasformare fiori, erbe, radici per ricavarne tisane ma anche e soprattutto rosoli e distillati. Inoltre frutta, cereali e vinacce residue della lavorazione di vino e birra alimentavano l’attività delle distillerie: persino il whiskey è stato, si dice, inventato in Irlanda da san Patrizio in persona, mentre il rum è nato nel Seicento in Martinica per opera di padre Du Tertre e di padre Laba fonte: Gambero Rosso, Daniela Guaiti, 31.01.2024