Nel suo libro “Placemaker”, Elena Granata (professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano) racconta l’espropriazione dalla città di Milano di un patrimonio inestimabile, che sarebbe ora di riesumare
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Ci sono anni maledetti che cambiano il corso delle nostre città. Quell’anno per Milano è stato certamente il millenovecentoventinove, quando l’intervento urbanistico sulle città si sposò con una visione igienico-sanitaria che fece degli sventramenti, dei risanamenti, delle sanificazioni il proprio linguaggio culturale e progettuale. Lo ha raccontato anni fa Pietro Lembi nel suo libro “Il fiume sommerso”, una ricostruzione colta e approfondita della relazione di Milano con le sue acque.
L’intervento di rimozione dei Navigli interni non nacque dal nulla. Dall’inizio del Novecento si era affermata tra gli ingegneri e gli igienisti urbani un’ansia salutista legata alla volontà di bonificare, di ripulire, di risanare le parti più degradate della città, che gradualmente si tramutò in un’ansia di controllo del sottosuolo, di rimozione delle acque, di ispezione dei fondi neri e che poi, infine, con il fascismo, in accordo profondo con gli interessi speculativi di una borghesia sempre più attiva nelle trasformazioni urbane, prese la forma di una cancellazione radicale dell’anima della città.
Quell’immagine di Milano, città in simbiosi ancestrale con le sue acque, venne in pochi anni brutalmente cancellata; in particolare venne cancellata quella cerchia interna dei Navigli realizzata a partire dal XII secolo a custodia del cuore antico della città, che proteggeva insieme con le mura di cinta medievali.
Milano rinacque nel Medioevo sul suo stesso precedente sedime romano e risorse come un sistema integrato di cascine, campi e acque. Ma sono proprio queste ultime la ragione dello sviluppo della città e di tutto il territorio lombardo, quella «patria artificiale» di cui parlava Carlo Cattaneo ancora nei primi decenni dell’Ottocento. Era un paesaggio costruito – metro per metro, canale per canale – dall’intelligenza tecnica e dal duro lavoro dell’uomo, che aveva governato ingegneristicamente le acque tanto da garantirsi l’irrigazione in una pianura cos’ estesa, la protezione dalle piene e dalle esondazioni del Po, la liberazione delle terre basse dagli impaludamenti.
La Lombardia godeva di un paesaggio organizzato secondo una rete sempre più fitta di canali, tutti navigabili, che hanno creato le premesse per lo sviluppo agrario prima, e industriale poi, attraverso la produzione sapiente di energia ricavata dalle acque. La patria di cui parla Cattaneo è la terra lavorata, il territorio trasformato dalle attività umane e dalle sue molteplici economie. E l’aggettivo «artificiale», ancora oggi di assoluta contemporaneità, allude all’invenzione umana, al genio trasformativo, all’homo faber che costruisce canali, argini, casolari.
«Artificio» è termine anche politico che allude alla costruzione di una consapevolezza di patria per le comunità, quella che passa attraverso l’azione sul territorio: è un processo culturale e mentale proprio dell’uomo e delle sue facoltà.
Un lavoro di secoli, che ha mobilitato scienziati e ingegneri, economisti e letterati, fatto di opere e di narrazioni, di viaggi e di fascinazione estetica, che si è concluso solo all’inizio dell’Ottocento con la costruzione, su ordine di Napoleone, del Naviglio Pavese, via d’acqua navigabile lunga più di 33 chilometri.
Così quella monumentale opera di ingegno che fu il paesaggio lombardo, a metà Ottocento, poteva godere di un sistema di canali di oltre 147 chilometri che la collegava ai grandi laghi e ai loro affluenti e, infine, attraverso Pavia, allo stesso Po. Vie d’acqua, porti, darsene, laghetti, centrali elettriche, chiuse: quando oggi parliamo con entusiasmo di nature-based solutions dimentichiamo di cosa siano stati capaci i placemaker del passato, di come l’ingegneria idraulica, l’agricoltura, l’economia politica e la generazione di paesaggi facessero parte di una grammatica condivisa di gestione del territorio.
La cerchia interna di Milano, quella più preziosa, lunga cinque chilometri, era stata resa navigabile attraverso la realizzazione di cinque conche, che permettevano di superare il dislivello effettivo tra le acque provenienti da nord (per esempio dalla Martesana) e quelle che si immettevano più a sud nella Darsena.
Nel 1929 la cultura urbanistica fascista, che era anche intrinsecamente salutista (mens sana in corpore sano), comincia ad abbracciare una narrativa che cambia il tono e le parole: trasforma le acque in luridume, la cerchia interna dei Navigli in acqua malsana, i Navigli in retaggio romantico, impedimento al progresso della città. Non ci si domanda perché siano così degradati, né se sia possibile rigenerarne le acque. L’acqua diventa di per se stessa un inutile intralcio alla trasformazione efficiente del centro cittadino e viene portata fuori dalla città.
Negli stessi anni viene costruito l’Idroscalo, con una logica che è ormai puramente funzionalista: un lago artificiale, piacevole, molto amato dai cittadini, ma senza alcun valore ambientale di connessione con altri paesaggi limitrofi. Questo processo di distruzione dei valori urbani ha luogo in forme simili anche in tante altre città italiane e l’urbanistica civile perde completamente la capacità di leggere l’insediamento urbano come un ecosistema.
Anzi, la natura è estromessa, tenuta distante perché percepita come un pericolo, un impedimento alla salute e al progresso dell’intero corpo sociale. Ma nessun’altra città ha incorporato nella propria storia una frattura tanto profonda tra città e natura come Milano. La copertura della cerchia interna del Naviglio ha cancellato l’antico solco dei canali trasformandoli in strade, in boulevard si diceva allora, volendo (senza successo) richiamare la grandeur parigina.
I fautori della chiusura brandirono come armi le relazioni medico-epidemiologiche degli ufficiali sanitari del Comune che denunciavano lo stato di grave insalubrità del canale; in realtà, dietro questi ragionamenti si nascondevano precisi interessi economici, riconducibili alla rendita e alla speculazione edilizia, alla cerchia dei proprietari fondiari e dei costruttori, che avevano compreso il valore di una nuova narrazione della città, improntata alla velocità del traffico stradale, alla salubrità dei percorsi, al decoro dato dalle facciate che ne disegnavano un volto più moderno. La città si ricalibra a misura dell’automobile, che era il vero lusso di pochi, le cui ripercussioni venivano imposte a tutti.
In quel 1929 l’acqua diventò un pericolo sociale da cancellare dall’immagine urbana e dalla memoria dei suoi cittadini. Riuscendoci, peraltro, attraverso una rimozione civile e un’amnesia culturale con cui la città non ha più fatto i conti. Non lo sanno certamente i giovani, ma non ne conservano il ricordo neppure i più vecchi. Proviamo a immaginare Venezia, Annecy, Amsterdam, Amburgo, Bruges senza le loro vie d’acqua; proviamo a immaginare un giorno in cui i cittadini di quelle città si svegliano e ritrovano i loro più intimi canali trasformati in strade. A Milano, tutto è accaduto in quattro settimane. In sole quattro settimane i Navigli sono stati sepolti e interrati. Via l’acqua, via gli animali, via la vegetazione, via i rumori delle chiuse, via tutti quei piccoli rituali e quelle quotidiane consuetudini che scandiscono la vita di tutte le città d’acqua.
Negli stessi anni un’operazione simile ha ispirato la rimozione delle acque da Mestre, trasformandola da città di mare e di canali in città di terraferma, pronta per accogliere tutte le funzioni industriali e di trasporto che Venezia non avrebbe mai potuto accogliere. E ancora oggi il contenzioso tra Venezia, gioiellino storico conservato, e Mestre, su cui sono stati scaricati i costi industriali e le attività funzionali, racconta di quella incapacità di capire l’ecosistema urbano nei suoi equilibri piú fragili.
Mi pare, dunque, cruciale ripartire dalla cesura di Milano con la sua matrice originaria e con la sua storia lunga di «terra di mezzo», di città in mezzo alla pianura, perché il riconoscimento di questa sua originaria collocazione e funzione di mediazione tra terra e acque, tra città e territorio, tra dentro e fuori i propri confini, potrebbe aiutarla a guardare avanti (nel tempo) e a guardare fuori (oltre le sue molte storiche cerchie).
I canali per Milano non erano solo ornamento, come lo saranno poi nell’immaginario turistico, la Darsena o i due Navigli Grande e Pavese. Quel sistema ramificato e complesso di acque e di terre costituiva uno dei più evoluti e innovativi ecosistemi d’Europa, sintesi perfetta di ingegno – Leonardo da Vinci ha dedicato la vita a disegnare chiuse, darsene, canali –, di natura, di funzionalità e di estetica. I cinque Navigli lombardi hanno strutturato e organizzato una rete di residenze, castelli, monasteri, mulini, fabbriche, centrali idrauliche: un paesaggio senza eguali in tutta Italia. Un’economia agraria e industriale che sapeva produrre ricchezza ma senza abdicare alla più sincera natura e al legame con il paesaggio.
Ci sono morti generative, una fine che diventa un nuovo inizio, e poi ci sono gli inutili sacrifici della storia che, cancellando natura e architettura, rimuovono immaginari e sensibilità dalle città. La cancellazione dei Navigli appartiene a questa seconda opzione: si è innescata la sistematica distruzione di un paesaggio che aveva più di mille anni di storia. Forse è proprio la perdita di questa memoria e di questa esperienza della natura che ha impedito che anche qui nascessero tanti piccoli altri Roosegaarde, il designer cresciuto tra le acque e le dune, di cui avremmo oggi tanto bisogno.
I Navigli interni sono la nostra High Line. Sono le catacombe di Antonio Loffredo. Sono lì sotto. Sepolti ma vivi. Dimenticati ma ancora pulsanti. Oggi che si parla di transizione ambientale, di forestazione urbana, di ecosistemi da riscoprire, il progetto di riapertura dei Navigli, proposto a partire dal 2015 da alcuni colleghi urbanisti del Politecnico, coordinati da Roberto Biscardini e Giorgio Goggi, mi pare il progetto piú lucido e visionario che la città possa darsi nel nostro tempo. La pandemia peraltro dovrebbe suscitare un rinnovato interesse per questa possibile rivoluzione. In un completo rovesciamento di valori, oggi comprendiamo che la salute nostra e dei luoghi che abitiamo dipende da una ritrovata consonanza con la natura e che i cambiamenti climatici ci chiedono di agire con urgenza riportando questa grande assente nelle città (in forma di acqua, alberi, suoli liberi, parchi).
Se consideriamo le ragioni per cui si deciderà di rimanere a vivere in una grande città potendo agilmente lavorare anche da remoto, molto dipenderà dall’attenzione che le amministrazioni sapranno attribuire ai beni comuni, alla qualità degli spazi pubblici, all’economia circolare (e il sistema delle acque potrebbe garantire produzione di energia e nuove economie). Investire sulla natura e sulla fascinazione ambientale sarà necessario per attrarre nuove forme di turismo, che forse non saranno piú solo quelle di massa e planetarie (che da Expo in poi la città aveva saputo attrarre), né quelle rapide e rapaci delle fiere e degli eventi internazionali.
Non può bastare l’invocazione di una «città del quarto d’ora», non può bastare il comfort di trovare i servizi vicino a casa come metafora capace di costruire immaginari convincenti. Avere negozi, giardini, servizi di prossimità rientra nella dotazione minima di qualità che tutti i cittadini si attendono, al pari della cura minuta degli spazi, dalla capacità di gestire al meglio i rifiuti alla manutenzione delle strade. Ma non può bastare al rilancio di una città sulla scena mondiale.
Oggi ci vuole, come dice spesso Stefano Mancuso, una nuova idea di città, radicalmente diversa da quella che abbiamo ereditato, capace di costruire sinergie nuove, come si è detto, tra nucleo e orbite esterne, tra città e bacini agricoli, tra città e sistemi naturali. Milano potrebbe trovare la soluzione a molte delle sue domande proprio sotto i suoi piedi. Non è certo una megacity, ha i numeri di una città intermedia se la guardiamo secondo una metrica planetaria. Non è una città-Stato, anche se per anni si era convinta di poter procedere come locomotiva solitaria, incapace di portarsi dietro il suo territorio e il resto del Paese.
Ma potrebbe tornare a essere una città-territorio, una città-paesaggio, una città-Paese. Sarebbe necessario che Milano riscoprisse “la sua collocazione di città non grande all’interno di un sistema policentrico regionale vasto e interconnesso; il rapporto equilibrato con il territorio (in gran parte irrimediabilmente perso) agricolo, rurale, naturale; la collocazione in un ampio sistema di reti e di relazioni, estese ai livelli locale, regionale e sovraregionale; la sua vita civile, contrassegnata da capacità di integrazione, apertura e tolleranza; l’intelligenza e la capacità – nella progettazione del proprio futuro – di fare sempre i conti con la storia e la memoria; la capacità di innovarsi sempre e di progettare il proprio destino nella ricerca e nell’innovazione scientifica”.
Come ha riaffermato l’architetto Luca Bergo in un suo recente articolo, «se la città non ricostruisce un rapporto equilibrato con il suo contado e con le sue acque, ogni progetto per la transizione ecologica è destinato a fallire. L’acqua è l’elemento portante della riconversione ecologica di Milano e del suo territorio». Non si tratta di ripristinare un’immagine nostalgica della città ma di riscoprirne la dimensione eco-sistemica più profonda, incidendo sulla qualità estetica ma anche su quella ambientale, in quell’accezione tutta «artificiale» che ci ricordava Carlo Cattaneo. E la pandemia peraltro potrebbe predisporre nei cittadini un rinnovato interesse per questa possibile rivoluzione. In quel completo rovesciamento di valori che richiamavo sopra sentiamo l’urgenza di riportare la natura a Milano, come in ogni altra città.
I colleghi urbanisti re-inventori della «città sull’acqua», con una lunga carriera da politici e accademici alle spalle, hanno messo insieme l’ipotesi del progetto, studiando le matrici storiche, verificando le possibilità ingegneristiche dell’opera attraverso un paziente lavoro di esplorazione, di verifica, di argomentazione tecnica e di costruzione di consenso. Coinvolgendo le loro aule di giovani architetti in erba del Politecnico, hanno cominciato a coltivare quella che all’inizio a molti è parsa solo un’idea folle e ingenua. Di loro, spero, si potrà presto dire: sono stati placemaker visionari, capaci di immaginare cose che altri hanno bisogno di vedere per poter pensare possibili. Placemaker, Elena Granata, Einaudi, 162 pagine, 16 euro