Secondo l’erede al trono britannico, parole come “biodiversità”, “agroforestazione”, “capitale naturale” non trasmettono il vero messaggio dell’ambientalismo, in un momento in cui di fronte abbiamo “un cambiamento epocale” e quindi ci deve essere una coscienza collettiva “per fare le cose diversamente”
LONDRA – “Il linguaggio ambientalista a volte è così oscuro che può nascondere il vero messaggio alla base e non arriva a coloro che hanno più bisogno di ascoltarlo”. Sono le parole – le sue chiarissime invece – dell’erede al trono oltremanica, il principe Carlo, da sempre convinto e impegnato alfiere ambientalista, sin da quel suo discorso nel 1970, quando a 21 anni lanciò l’allarme riguardo l’uso della plastica, le sostanze chimiche rilasciate nei fiumi e l’inquinamento causato da fabbriche e autovetture. “Molta gente allora mi prese per matto”, ha ricordato di recente il Principe del Galles. Che, nonostante lo scetticismo dell’epoca, non si è mai tirato indietro. Anzi, da pioniere, ha aumentato e approfondito sempre di più il suo impegno profuso per l’ambiente.
Ma siccome le parole sono importanti, ecco dunque l’ultimo appello del figlio di Elisabetta II, pronunciato in un’intervista al magazine di agricoltura Farmers Weekly, come riportato oggi dal quotidiano Daily Telegraph. Nell’occasione, Carlo ha ricevuto dalla testata un riconoscimento per i suoi sforzi contro il cambiamento climatico e per la preservazione della biodiversità. Ma, secondo lui, talvolta il “gergo” è troppo “ostico” quando Ong e scienziati parlano di ambiente. Il principe si riferisce soprattutto a parole come “biodiversità”, “agroforestazione”, “capitale naturale”, che secondo lui non trasmettono il vero e fondamentale messaggio dell’ambientalismo, in un momento in cui di fronte abbiamo “un cambiamento epocale” e quindi ci deve essere una coscienza collettiva “per fare le cose diversamente”.
Secondo il Telegraph, l’erede al trono con queste parole ha espresso la sua preoccupazione nei confronti di un linguaggio specialistico che secondo lui sfavorisce coloro con meno titoli di studio, per esempio i contadini e gli allevatori, i quali dunque potrebbero non comprendere la gravità della situazione e dei rischi per l’ambiente, specialmente quei lavoratori che in questo momento si trovano in difficoltà economiche. Per questo, dato che c’è bisogno di raggiungere le sensibilità e le coscienze di tutti, secondo Carlo bisogna parlare in maniera più “pratica”.
Qualche settimana fa lo stesso Principe del Galles ha lanciato l’importante “Terra Carta” (chiamata così in onore della “costituzione” britannica Magna Carta del 1215), una iniziativa che punta a unire le forze di industrie, governi, filantropia e tecnologia in nome dell’ambiente. Non solo: Carlo ha trasformato in maniera biologica le sue fattorie e di recente ha lanciato anche la sua linea di moda sostenibile, anti-sprechi e contro l’usa e getta, con tanto di Italia coinvolta: “Modern Artisan”, “artigiano moderno”. La prima collezione è andata in vendita (per ora solo nei negozi online causa lockdown in Regno Unito) il 12 novembre scorso, ma soprattutto è stata disegnata in Italia, da sei laureati di moda del Politecnico di Milano. Mentre a realizzare gli abiti materialmente sono altri sei italiani più altri quattro inglesi dopo un corso esclusivo che si è tenuto a Dumfries House, meravigliosa tenuta palladiana del XVIII secolo del principe Carlo, nel sud della Scozia. “Modern Artisan” è inoltre frutto di una collaborazione tra la Fondazione di Carlo e il gruppo Yoox Net-a-Porter, azienda all’avanguardia dell’abbigliamento di lusso.
Perché il primo a dare l’esempio è sempre lui, il figlio di Elisabetta II: “Ancora indosso scarpe comprate nel 1971”, aveva rivelato a fine 2020 l’erede al trono in un’intervista esclusiva a Vogue, “è come quando da bambino andavamo a portare le scarpe dal calzolaio in Scozia e lui le riparava, e cambiava le suole e le ricambiava ancora una volta… Era molto bello. Preferisco che le cose vengano riparate piuttosto che comprarne ogni volta di nuove e buttare le vecchie. Anche perché così si può dare lavoro a molte più persone, non solo i calzolai” fonte: La Repubblica, Antonello Guerrera, 8.02.2021