Dall’agricoltura “convenzionale“, che scende in strada a quella delle micro-imprese silenziose: “La transizione ecologica è già dentro il nostro lavoro“
Siamo forse abituati a pensare l’agricoltura come unica entità, ma le proteste in atto nelle strade italiane in questi giorni svelano quanto in realtà il mondo agricolo sia composito.
Gli agricoltori che hanno deciso di scendere in strada coi trattori appartengono al circuito agricolo industriale. Si tratta di quelle produzioni intensive, orientate allo sfruttamento dei terreni in modo da massimizzare le produzioni, quella che oggi chiamiamo “agricoltura convenzionale”. Per oltre 50 anni le politiche agricole nazionali ed europee hanno incoraggiato questa modalità di coltivazione e allevamento, che all’epoca doveva sembrare innovativa e all’avanguardia e che oggi ha rivelato tutti i suoi limiti, dal punto di vista della sostenibilità ambientale, della salute dei suoli e della salubrità del cibo prodotto. Questi agricoltori protestano perché le nuove norme scombineranno via via le regole del gioco a cui sono abituati e non sono pronti. Per tutti questi anni le loro principali fonti di formazione e aggiornamento professionale sono stati corsi e consulenze erogati da aziende produttrici di mangimi, fertilizzanti e pesticidi con precisi interessi commerciali e non particolarmente inclini alla transizione ecologica.
Nondimeno, sebbene i finanziamenti legati alla PAC abbiano indubbiamente supportato il settore fino ad ora, hanno anche avuto l’effetto collaterale di drogare il mercato dei beni agricoli, consentendo di soprassedere ai prezzi iniqui dettati dall’industria e lasciando le aziende agricole prive di quella cultura imprenditoriale che permette alle imprese di altri settori di far fronte ai cambiamenti con maggiore elasticità. Il risultato è una protesta reazionaria contro il Green Deal e le politiche agricole comunitarie.
Poi ci sono quelli che in silenzio sono rimasti a guardare, non condividendo del tutto le ragioni della protesta. Sono l’agricoltura di quelle micro-imprese rispettose dell’ambiente e degli animali, che non sono interessate dalla transizione ecologica perché il loro approccio è già dentro quei cardini.
Per capire meglio il sentire di queste piccole ma numerose realtà sparse in tutto il territorio, ho sottoposto ai membri dell’Associazione delle Casare e dei Casari di Azienda Agricola un breve sondaggio. Dall’indagine è emerso che queste aziende, pur appartenendo al mondo agricolo, per il 94% non si sentono rappresentate dalla protesta in corso o lo sono solo in parte. In particolare circa l’80% si dichiara in disaccordo con le istanze contro il Green Deal, è quindi favorevole alla riduzione dei pesticidi e alla transizione ecologica. Alle micro-imprese agricole di filiera corta sembrano interessare maggiormente incentivi alle produzioni sostenibili, l’attenzione alla concorrenza sleale derivata dalle importazioni da paesi con regole diverse e soprattutto la riduzione del carico burocratico.
La percezione generale è che nonostante le ingenti risorse economiche destinate ai grandi produttori, il settore agricolo sia stato a lungo “trascurato” sia dalle politiche che dalla nostra cultura in generale. A partire dall’idea che il mestiere dell’agricoltore potesse essere adatto anche a chi non aveva particolare inclinazione allo studio fino al valore economico che siamo disposti a dare al cibo. Oggi come non mai tutti noi abbiamo bisogno di invertire questa tendenza: la produzione di cibo necessita di persone formate e capaci, in grado di far fronte alle sfide che il settore deve affrontare.
Se dovessi formulare richieste all’Unione Europea, chiederei politiche orientate a gratificare le aziende virtuose, un sistema di conoscenze condiviso e strumenti utili alle imprese per procedere nella transizione verde con consapevolezza. Fonte: IL GUSTO, Maria Cristina Crucitti, 18.02.2024