Dall’amore per la terra e la biodiversità a un progetto visionario di agricoltura rigenerativa. Il cambio di prospettiva di Jonathan Nossiter, da regista a orticoltore
Una vita passata a studiare la terra e a raccontarla attraverso immagini e documentari. Jonathan Nossiter è un regista americano nato negli Stati Uniti nel 1961 e che ha trascorso buona parte della sua vita in giro per il mondo tra Francia, Inghilterra, Germania, Grecia, India, raccogliendo materiale per le sue produzioni cinematografiche. Prima con Mondovino, un documentario che racconta e mette a confronto l’approccio alla viticoltura delle grandi aziende con le piccole realtà agricole e contadine. Particolarmente apprezzato dalla critica e presentato al Festival di Cannes nel 2004, Mondovino si faceva già all’epoca portatore di un messaggio che risulta oggi più che attuale: «un vino come rappresentate di un territorio può nascere solo grazie a un’agricoltura pulita e una lavorazione artigianale rispettosi del frutto e della sua naturale espressione». Nel 2014 invece esce Resistenza Naturale, un nuovo documentario sempre a tema vino, dove Nossiter denuncia l’approccio agricolo intensivo promosso dalle istituzioni dando la parola a quattro vignaioli indipendenti. E dopo tanti anni dietro la macchina da presa – dove in qualche modo il rapporto con la terra, le stagioni, il flusso del tempo e della natura sono sempre stati presenti – Nossiter si è lanciato in un progetto che lo vede sempre protagonista, ma questa volta come agricoltore vero e proprio.
La Lupa è una piccola azienda agricola nata nel 2016 sul Lago di Bolsena dove l’ex regista – insieme a qualche amico di fiducia e a un pizzico di follia che li accomuna– ha avviato un progetto di orticoltura rivoluzionario. «Era da tempo che mi ero messo in testa di trovare un posto dove lavorare la terra» racconta Jonathan «poi sono arrivato qui a Bolsena in località La Lupa ed è stato amore a prima vista». La località identificata con questo nome sembra risalire nelle mappe del XVII secolo a una frazione del comune di Bolsena. Il casale principale fu abitato per circa 150 anni dalla famiglia Briscia, costituita principalmente di coltivatori terrieri a mezzadria sotto il controllo del Conte di Montalfina. Quando nel 1962 i Briscia si allontanarono dalla zona il terreno fu totalmente abbandonato e lasciato a sé stesso per i successivi cinquant’anni. Quando Nosssiter lo prese in custodia trovò una giungla di rovi, ma era passato il tempo necessario perché si rinaturalizzasse totalmente e presentasse di nuovo un’incredibile biodiversità. Ad oggi questo laboratorio a tratti visionario e sperimentale scommette sul recupero di semi ancestrali, sul ripristino della biodiversità e l’applicazione di un modello agricolo rigenerativo. La policoltura è dunque l’elemento cardine su cui si fonda l’Orto Vulcanico, il cuore pulsante dell’azienda. Qui si coltivano più di 120 varietà di pomodori, altrettante cipolle, più di mille ortaggi di tutti i tipi, alberi da frutta e piante aromatiche.
Le file di coltivazione sono composte unendo prodotti diversi: scalogno e lattuga, mais con fagioli e zucchine (come è consuetudine ad esempio in centro America) o fave e pomodori. Il recupero di varietà antiche di semi iniziato con l’avviamento dell’Orto Vulcanico rientra in un progetto di banca dei semi ancestrali dove gli agricoltori si impegnano a ricercare le vecchie varietà per poterle scambiare, conservare, disseminare. Come si è soliti fare con il vino, parlando di terroir, si cerca di capire fino a che punto la specificità dell’area geografica e l’appartenenza al luogo possano influenzare melanzane, broccoli, pomodori. E sono proprio questi ultimi ad essere in qualche modo i veri protagonisti dell’Orto Vulcanico perché grazie al lavoro Valentina Bianchi, chef e collaboratrice nel progetto, il processo di controllo, selezione e lavorazione cui sono sottoposti è particolarmente curato e attento. È Valentina che sceglie se lasciare la buccia o meno, quanta polpa della stessa varietà di pomodoro occorre aggiungere per creare una conserva non troppo solida e non troppo liquida e soprattutto, come lavorare il prodotto per preservare il più possibile il gusto originale. La tecnica usata per la sterilizzazione dei barattoli – che non è un’autoclave bensì una pentola in acciaio inox per bagnomaria – lavora per preservare al massimo il valore nutrizionale e organolettico del frutto. La produzione è veramente ridotta e ogni varietà lavorata è un’edizione limitata con una grande diversità di risultato da un barattolo a un altro. Si trovano il Colletto Scuro, una varietà di datterino bicolore ancestrale siciliano, con un colletto verde scuro sul corpo rosso di cui, per esempio, nel 2021 sono stati prodotti 64 vasetti. Il Ciliegino Bolsenese è una varietà ancestrale pugliese, dove la pianta è nana ma il frutto molto saporito. Il Canestrino è il risultato di un incrocio spontaneo avvenuto all’Orto Vulcanico Lupa tra il Canestro e pomodori vicini (probabilmente Principe Borghese e Datterino). Ha la stessa consistenza del Canestro ma maggiore dolcezza. E potremmo continuare. Un po’ come succede nel mondo delle Triple A, quello di Jonathan Nossiter è un progetto totalmente unico, visionario, ambizioso, che celebra la varietà del nostro ecosistema e la biodiversità provando a regalare emozioni attraverso il cibo. L’azienda agricola La Lupa è in questo senso più cose insieme: un laboratorio del possibile, un luogo di cultura e celebrazione della terra, una banca dati di semi ancestrali (e non), un insieme di persone unite per «condividere cose particolarmente deliziose da mangiare» e in qualche modo un museo a cielo aperto di una piccola parte del nostro patrimonio vivente. Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Chiara Buzzi, 13.04.2022