Sono sempre più speculativi gli andamenti dei prezzi delle materie prime, che stanno mettendo in crisi le aziende e i produttori, ma stanno soprattutto mostrando quanto alcune scelte del passato siano state poco lungimiranti
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Il prezzo delle materie prime e dell’energia continua a fluttuare, e le speculazioni coinvolgono sempre di più il settore del cibo.
Una speculazione sulla fame che nei Paesi più ricchi provoca inflazione e povertà ma anche gravi carestie e rivolte nei Paesi meno sviluppati, con le quotazioni sul mercato future di Chicago che per il grano restano comunque ai massimi per un valore di 11,54 dollari per bushel (27,2 chili) ma su livelli alti si collocano anche le quotazioni di mais (7,54 dollari per bushel) e soia, secondo un’analisi della Coldiretti. A sconvolgere il mercato dei prodotti agricoli è lo stop all’export deciso da importanti Paesi produttori come Ucraina e Ungheria mentre permangono le difficoltà di spedizioni dalla Russia, principale esportatore mondiale. Una situazione che – spiega la Coldiretti – aggrava l’emergenza in Italia, Paese deficitario su molti fronti per quando riguarda il cibo: produciamo appena il 36% del grano tenero che ci serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovigionamento.
Ma il problema non è da imputare all’oggi, e dipende da scelte che nel tempo si sono rivelate problematiche. L’Italia è costretta ad importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti dalle industrie agli agricoltori, costretti dal calo dei compensi negli ultimi anni a ridurre la produzione di mais e di grano.
Con lo scoppio della guerra e la crisi energetica sono aumentati mediamente di almeno 1/3 i costi produzione dell’agricoltura. La presenza nel nostro paese di 5 milioni di italiani in una situazione di indigenza economica, secondo il documento sulla crisi consegnato dal presidente della Coldiretti Ettore Pradini al Ministro per le Politiche Agricole Stefano Patuanelli, ha messo ulteriormente in crisi la filiera.
«La pandemia prima e la guerra poi hanno dimostrato che la globalizzazione spinta ha fallito e servono rimedi immediati e un rilancio degli strumenti europei e nazionali che assicurino la sovranità alimentare come cardine strategico per la sicurezza» afferma Prandini nel chiedere «interventi urgenti e scelte strutturali per rendere l’Europa e l’Italia autosufficienti dal punto di vista degli approvvigionamenti di cibo».
E poi c’è l’aspetto della sostenibilità ambientale, che ha portato a scelte che oggi non sono più così “sostenibili” sul fronte della produzione: per ogni terreno coltivato in biologico dobbiamo essere disposti a fare i conti con un calo della produzione, spesso non supportato da un equivalente calo del peso ecologico. Almeno in termini relativi: perché se è vero che inquiniamo meno, lo facciamo per produrre meno. Sulla bilancia i conti non tornano comunque. Inoltre, la stessa politica agricola comune (Pac) e il Pnrr prevedono un obiettivo del 10% di terreni incolti per garantire la strategia di biodiversità. Idealmente un’ottima idea, ma di complessa realizzazione quando la prima finalità che abbiamo è il nutrimento.
Alcune possibili soluzioni le spiega lo stesso Prandini, invitando ad investire per aumentare produzione e le rese dei terreni con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità, contrastare seriamente l’invasione della fauna selvatica che sta costringendo in molte zone interne all’abbandono nei terreni e sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica e le NBT a supporto delle produzioni, della tutela della biodiversità e come strumento in risposta ai cambiamenti climatici. Fonte: Linkiesta, Greenkiesta, Anna Prandoni, 14.03.2022