Antisociale, antisocialista, antiqualchecosa. Intervista senza filtri a Camillo Langone, scrittore e giornalista che aveva ironizzato sui Lambrusco premiati con i Tre Bicchieri del Gambero Rosso
Antisociale, antisocialista, anticollettivista, antiqualchecosa. Camillo Langone è Camillo Langone, scrittore e giornalista senza solfiti aggiunti. Con la sua penna, fine e non poco tagliente, ci ha schiaffeggiato dalle pagine de Il foglio: “Meglio il gin tonic del vino premiato dal Gambero Rosso”. Nessuno dei Lambrusco Tre Bicchieri nella Guida 2024 era ritenuto all’altezza della sua tavola reale. Potevamo chiamarlo per tirar su una lunga pernacchia o invitare a pranzo il più grande esperto di Lambrusco dell’orbe terracqueo. Abbiamo scelto la seconda strada, ci ritroviamo tra i sampietrini di via del Pellegrino, a pochi passi da Campo dei Fiori, tra scolaresche e turisti col panama. In pieno novembre. L’insegna recita Settimio per rispetto del passato, da marzo è Da Cesare al Pellegrino.
Lambrusco Uber Alles
“Il Lambrusco è l’unico vero autoctono italiano, deriva dalla vitis silvestris, c’era già nella foresta primordiale. E’ il vitigno più antico presente in Italia ed anche il vino più moderno. L’autoclave ha pulito il Lambrusco che era sporchissimo, ma oggi anche i rifermentati sono nitidi, dobbiamo tornare lì, un vino antico e moderno. Io lo vedo solo frizzante, mi sfugge perché il vino debba essere fermo”, esordisce. Del Lambrusco apprezza tutto: la sua diversità, la duttilità, il costo, la beva. “Mi piacciono tutti i Lambrusco, perfino quello mantovano, negli ultimi 5 anni ne ho assaggiati di potabili”, aggiunge in un raro istante di bontà. La disfida si gioca sul terreno del Sorbara, ne assaggiamo tre, i primi due premiati in Guida, Leclisse di Paltrinieri e il Sorbara in Purezza di Zucchi. “Non sono male devo dire, tengono bene l’acidità. Grasso che cola, fossero questi i vini bevuti abitualmente nei ristoranti di Parma dove abito”. Ma il cuore di Camillo batte per i rifermentati in bottiglia secondo il metodo ancestrale, ha portato il Sorbara del Fondatore di Cleto Chiarli, che si conferma una gran bella bevuta gioiosa. “Questo è il mio vino. Se il Lambrusco è il miglior vino italiano come famiglia, questo si avvicina alla migliore bottiglia che per me è lo Zero Infinito di Mario Pojer, l’unico vino buono senza solfiti. Mario è il Leonardo da Vinci dell’enologia italiana”. E’ in pieno clima partita, tra le aziende più piccole del Lambrusco apprezza Bergianti, Camillo Donati, Angol d’Amig. “Poi segui le loro pagine instagram e sembra che vendano solo in Giappone, Corea o Scandinavia”. Impossibile non citare una figura mitologica, Vincenzo Venturelli: “tutti, anche lo stesso Cleto Chiarli, gli riconoscono il titolo di vero Professore del Lambrusco. Anche se per me il suo vino è il Trebbiano di Spagna, un rifermentato introvabile e buonissimo”, gli crediamo sulla parola. Sa essere autoironico, un mix tra una figa accidiosa, un vero snob e un misantropo. “Io sono rigidissimo, non bevo vini da cantina sociale. Anche se è buono non lo bevo per motivi ideali, io voglio il nome e il cognome”.
L’inutile attesa della grande occasione
Anche sul vetro è curiosamente selettivo: “la bottiglia per me deve essere borgognona o al massimo l’albeisa, già la bordolese non va bene, la bordolose sfilata, quella più sottile, mai: proibita, non la bevo a priori. Mi piacciono le magnum o il litro quando si trova”. Spumanti o Champagne? Per Langone sono vini addizionati su cui aleggia il sospetto della truffa o, per toccarla più piano, del cattivo rapporto qualità/prezzo. Continuiamo a tenerci leggeri, dopo le polpette, arrivano la trippa e la coratella, quindi è tempo di gnocchi al sugo di coda. “La vita va affrontata, prendiamo la coda”. Dilettiamo di alcuni accorgimenti del mestiere, passepartout bellissimi come ‘annata interlocutoria’ o ‘troppo giovane’ per girare intorno a vini molto deludenti. Ci ritroviamo sul mito del vino invecchiato, lungamente atteso. “Il vino è fatto per essere bevuto, non per prendere le ragnatele. Non va bene, sa di tesaurizzazione, sa di attesa della grande occasione, ma cosa aspetti? La figlia che si laurea o che si sposa? In tutta quest’attesa, o muori tu o muore il vino. Ultimamente ho bevuto un Brunello Biondi Santi anni ’70, colmato e ritappato, beh, non c’era più”. Nel bicchiere ricerca il frutto e la freschezza di un succo d’arancia: “bisogna essere parecchio artificiali per cercare sensazioni quali cera, catrame o cuoio”. Peschiamo una bottiglia interlocutoria di Massavecchia e ci dividiamo su chi non beve vini da varietà internazionali per partito preso.
Lo Chardonnay in Italia è imbevibile
“Le imitazioni mi hanno sempre messo tristezza. Per me ogni cosa deve essere originale. Se voglio un Bordeaux compro un vino prodotto a Bordeaux, i supertoscani a base Cabernet o Merlot sono subfrancesi, imitazioni bordolesi, vini coloniali. Lo chardonnay italiano è imbevibile. Cosa ci fa un vitigno del freddo in Puglia o in Umbria? Anche Sauvignon e Riesling non li concepisco. Qualche Pinot Nero mi è perfino piaciuto (ohibò, ndr) ma sono migliori dei francesi? Spunteranno mai prezzi maggiori? E’ una questione estetica-morale, oltre buono o cattivo”. Nel suo libro “Dei miei vini estremi. Viaggio ebbro in Italia”, racconta di un Sassicaia portato in dono. L’ha utilizzato per sfumare il brasato. Langone’s style. Più cauto sulle grandi fiere: “io non sputo il vino…non sopporto il Vinitaly, nei miei incubi prende la forma di un’unica enorme sputacchiera, piazzata fra Verona e l’autostrada per un rito collettivo di profanazione”. Sorprende l’elogio dell’Amarone: “in un ristorante a Verona ho dovuto bere una Schiava perché non c’era un vino bevibile. Io sono nemico del Ripasso, sono per il Valpolicella scaricato non appesantito. Io sono contro l’Amarone, un vino ottocentesco e imbevibile, e sono contro le famiglie dell’Amarone. Io voglio bere Bardolino o Valpolicella leggero. Se un vino non può stare in frigorifero non va bene”. E’ implacabile. “La culla del vino italiano è il Regno di Napoli. La Campania è la regione più sottovalutata, con la maggiore base ampelografica. Il Gragnano Frizzante o l’Asprinio d’Aversa sono vini unici ma non li trovi da nessuna parte. La provincia di Napoli avrebbe tutto, Ischia, Campi Flegrei, Vesuvio. Queste sono zone vocate, mica Manduria!”. Vive buona parte dell’anno a Trani dove beve soprattutto vino rosa. “Terreni vocati e vippisimo, Scamarcio con la sorella produceva pinot nero a Polignano a Mare. Lo vendeva a Londra. Chissà come è finita”, sorride.
Vino naturale e Antico Testamento
Diamo una chance a un bianco calabrese. “In quanto regione negletta m’interessa. La Calabria ha il costo all’ettaro più basso d’Italia. Se un giovane vuole cominciare un’attività in Calabria può tentare, a Montalcino no, un luogo mortifero. Ci può arrivare giusto l’industria, i vip, i finanzieri”. Dopo una sola sniffata ha già decretato il verdetto negativo e tira oltre. “Se la Toscana è sopravvalutata, il Piemonte ha tantissimo. Penso anche alle denominazioni settentrionali o al Grignolino che bevo volentieri”. Scocca l’ora della sinistra naturale. “Capossela ha detto una cosa interessante e abbastanza vera, io mi trovo totalmente isolato, non è mio questo mondo, mi tocca frequentare locali dove non ci sono cattolici tradizionalisti come me neanche a pagarli. Non ci sono lettori dell’Antico Testamento ma solo zecche. Trovo questi personaggi fastidiosi ma i vini m’interessano”. Poi allarga l’orizzonte: “la sensazione è che il vino, come la civiltà, sia in declino irreversibile. I riferimenti vecchi sono finiti e i nuovi non sono ancora un mondo nuovo. Il vino naturale è chiuso su se stesso: sono prodotti da una setta, bevuti da una setta, non riesce a sfondare al di fuori. Mi rattrista, speravo che tipologie come i pét-nat o ancestrali andassero a pescare verso i bevitori di spritz, ma non è così. E se il vino è bevuto da una stretta minoranza non fa più parte della cultura, della civiltà, è una mania di un gruppo, uno status. Il vino naturale ha portato leggerezza organolettica ma con pesante ideologia di contorno”. E ha finito per dividere i bevitori in gruppi, non c’è più un vino che metta d’accordo tutti.
Per fortuna ci pensa la critica. “La critica enogastronomica non esiste più, non ha speranza alcuna, il vostro potrebbe essere l’ultimo canto del cigno. Torniamo nell’800 al Conte Manzoni o Leopardi, solo un ricco poteva fare letteratura. Anche oggi la critica la può fare solo un ricco, ma i ricchi hanno altro da fare. E un vero ricco non sa niente di vini. La critica è morta in tutti i campi: cinematografica, musicale, letteraria. Tutte stra-orte. Sono tutti marchettari, penso alla critica musicale: i biglietti, l’amico, come fai a scriverne male? Sono tutti bravissimi. L’ultimo disco di Ligabue, uno che stimo, è per forza sempre meraviglioso, anche se è lo stesso da 30 anni”. L’ultima coccola è per il ruolo dello chef. “Il cuoco è un lavoro da nevrastenico, sempre di fretta, sotto pressione. Spesso è un maniaco, un fissato, un personaggio problematico. A proposito, mi ha scritto Bottura per prendere una mia vecchia macchina da scrivere. Mi ha invitato a pranzo da lui nel tavolo della cucina, anche io sono corruttibile. L’ho criticato 1000 volte, ma ha un suo saper fare, una sua grandezza. Lo vedo in bici per le vie di Modena e ammiro quanto ha fatto per il Lambrusco”. Lo provochiamo con il più celebre Cabernet Franc di Bolgheri: “un mammut! C’è gente che beve ancora questa roba?”. Paghiamo, facciamo due passi, il tempo di un caffè bruciato e riprendiamo i nostri sentieri. fonte: Gambero Rosso, Lorenzo Ruggeri , 13.01.2024