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Gen 29 2021

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L’IVASIONE DEL MIELE ADULTERATO CINESE. LE FRODI SONO DIFFICILISSIME DA IDENTIFICARE

È molto difficile da individuare, ma sta compromettendo l’attività di migliaia di apicoltori in tutto il mondo, soprattutto nei paesi più poveri, dove mancano le grandi aziende in grado di reggere una concorrenza così sleale.

Il miele adulterato con zuccheri – in estrema sintesi, miele diluito con sciroppi vari, principalmente derivanti dal riso, dal mais e dalla barbabietola – cinese (ma non solo), grazie ai prezzi stracciati sta distorcendo il mercato. A raccontare che cosa rappresenta, oggi, questo prodotto, è Wired, che in un lungo articolo parte dalle storie dei piccoli apicoltori messicani, ai quali 5 anni fa un chilogrammo di miele biologico e raccolto da un circuito fair trade veniva pagato 47 pesos (poco meno di 2 euro), mentre oggi solo 35 pesos, un prezzo che non basta a coprire i costi e che per questo costringe molti ad abbandonare le arnie. Alcuni di questi apicoltori, però, non si sono dati per vinti, e hanno iniziato ad analizzare il miele della grande distribuzione, e a lanciare una campagna internazionale affinché in molti facciano lo stesso.

Ogni anno nel mondo vengono prodotte 1,9 milioni di tonnellate di miele, in 90 milioni di apicolture, che rappresentano anche un presidio alla biodiversità, oltreché essere indispensabili per l’impollinazione di tre quarti delle piante sfruttate dall’uomo. Ma il loro numero sta calando, a causa della morìa degli insetti, ma anche dei prodotti cinesi. La Cina infatti, primo esportatore mondiale e produttore di un quarto del miele venduto globalmente, non vieta la diluizione e anzi, sostiene i prodotti diluiti con una rete di aziende del distretto di Zhejiang, dove si trovano fianco a fianco quelle della lavorazione del miele e quelle della produzioni di sciroppi di mais e riso. Ali Baba, la più grande piattaforma di vendita online, pubblicizza uno “sciroppo di glucosio industriale per miele”, che costa pochissimo: 85 centesimi di euro al chilo. Ma spesso i consumatori non si rendono conto che il miele che trovano nel loro supermercato, e che è così conveniente rispetto a quello cui erano abituati, è miele cinese diluito.

L’estensione del problema appare evidente ogni qualvolta la si vada a misurare. Nel 2015, un’indagine della Commissione Europea ha trovato che, su 893 campioni, il 14% era fortemente sospetto. Nel 2018 un’analoga inchiesta della Canadian Food Inspection Agency ha scoperto che, su 240 campioni, il 21,7% non soddisfaceva gli standard minimi e conteneva zuccheri aggiunti, e lo stesso è avvenuto molte altre volte, in campioni di numerosi produttori, esportatori e rivenditori, analizzati in vari Paesi.

Il fenomeno è dunque noto, ma perseguirlo è complicato, per molti motivi e, innanzitutto per la complessità del miele, un prodotto difficile da standardizzare, che contiene centinaia di sostanze che cambiano a seconda delle condizioni, e per la difficoltà dei test per l’identificazione dei composti adulteranti. Gli esami sono ancora disomogenei e, in molti casi, superati da nuove strategie di chi adultera. Inoltre non sono sfruttati quanto si potrebbe, per l’assenza di grandi database internazionali nei quali inserite le caratteristiche chimico-fisiche dei prodotti analizzati e presenti sul mercato. Per questo si sta cercando di correre ai ripari, implementando le analisi e cercando di migliorare le etichette, in modo che sia più chiaro, ai consumatori, da dove arriva il miele che stanno comprando, e perché, nel caso, costa così poco.

Storicamente si è usato spesso un test chiamato AOAC998.12, altrimenti detto test del C4, perché il nettare e le proteine ​​del polline raccolte dalle api provengono tipicamente da piante i cui zuccheri hanno tre atomi di carbonio (C3), mentre le molecole di zucchero prodotte dalle piante tropicali, come la canna da zucchero e il mais, hanno quattro atomi di carbonio (C4). Anche se nel tempo è stato migliorato con l’introduzione di tecniche sofisticate come la cromatografia e la gascromatografia, soprattutto per lo zucchero da barbabietola e riso, i produttori di miele adulterato hanno imparato da tempo ad aggiungere zuccheri non rilevabili.

Su Ali Baba, scrive ancora Wired, i prodotti pubblicizzati recano addirittura la dicitura: “in grado di superare il test del C4”. Sono poi stati proposti test basati su enzimi come la fructufuranossidasi, usata nei processi industriali di conversione degli zuccheri, ma secondo alcuni può dare falsi positivi, così come analisi di uno zucchero raro chiamato psicosio, considerato marcatore di adulterazione perché assente nel miele naturale. Ma nessuno di essi è soddisfacente. La svolta potrebbe arrivare dalla risonanza magnetica (Rmn), che riesce a fornire profili molto più accurati. Una convalida è arrivata nel 2018, quando l’Honey Authenticity Project messicano (vedi sito) ha utilizzato la Rmn (eseguita da un laboratorio indipendente tedesco) per controllare il miele venduto dalla catena britannica Tesco e ha scoperto che 10 campioni su 11, compresi quelli a marchio Tesco, erano adulterati, e che nessuno degli 11 era al di sopra di ogni sospetto. Nel 2020, poi, ne sono stati controllati altri 13, e 9 contenevano proprio lo psicosio, mentre dieci avevano enzimi utilizzati nell’adulterazione: tutti e 13 i campioni sono stati bocciati dalla risonanza.

Sempre per quanto riguarda Tesco, gli esperti del Project hanno utilizzato miele venduto dalla stessa catena a poco più di una sterlina e denominato “puro” e tracciabile fino al singolo produttore, e hanno trovato tracce di contaminazione da sciroppo. L’azienda ha temporaneamente ritirato quei prodotti, in attesa di nuove analisi, ma la Food Standard Agency inglese, chiamata in causa per possibile frode, non ha voluto indagare oltre, negando l’utilità della Rmn in queste analisi.

Gli esperti dell’Institute for Global Food Security della Queen’s University di Belfast, che avevano scoperto la carne di cavallo mischiata a quella di manzo nel 2013, non sono della stessa idea. Secondo loro la risonanza è ottima per questi scopi, a patto però che vi sia un database nel quale depositare tutte le analisi, e che possa poi essere utilizzato per i riscontri. I problema è che, per ora, non ne esistono di internazionali. Esistono in realtà alcuni database privati: per esempio, quello dell’azienda americana Bruker, che contiene i dati di più di 1.800 campioni, molti dei quali cinesi, ma essendo appunto proprietà di enti privati, le analisi non rispondono a specifici standard internazionali. Inoltre non c’è accesso libero e gratuito ai dati, ed eventuali analisi di solito non sono riconosciute nelle cause per frode alimentare.

Per questi motivi si sta cercando di creare database e metodi condivisi; lo ha fatto anche la Commissione Europea, che nel 2018 ha pubblicato un documento in cui ribadisce la necessità dei database per le analisi Rmn. Qualcosa insomma si muove, ma la strada sarà lunga. Nel frattempo, i consumatori possono tenere presente la disparità di prezzo: se un miele costa 1-2 euro al chilo, quasi sicuramente è diluito e certamente è ben diverso, qualitativamente, da quello che ne costa 8-9, e che permette agli apicoltori di sopravvivere. Fonte: Il Fatto Alimentare, Agnese Codignola, 29.01.2021

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