LE BARBERA D’ASTI 2007
IL PINOT NERO 2007
OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA 2009
FARO DOC PALARI
I’ RENNERO MERLOT VAL DI CORNIA SUVERETO
CHIANTI CLASSICO 2007 DI GREVE IN CHIANTI
CHARDONNAY D’ITALIA 2008
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI 2008
LE BARBERA D’ASTI 2007
IL PINOT NERO 2007
OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA 2009
FARO DOC PALARI
I’ RENNERO MERLOT VAL DI CORNIA SUVERETO
CHIANTI CLASSICO 2007 DI GREVE IN CHIANTI
CHARDONNAY D’ITALIA 2008
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI 2008
LE BARBERA D’ASTI 2007
IL PINOT NERO 2007
OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA 2009
FARO DOC PALARI
I’ RENNERO MERLOT VAL DI CORNIA SUVERETO
CHIANTI CLASSICO 2007 DI GREVE IN CHIANTI
CHARDONNAY D’ITALIA 2008
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI 2008
LE BARBERA D’ASTI 2007
IL PINOT NERO 2007
OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA 2009
FARO DOC PALARI
I’ RENNERO MERLOT VAL DI CORNIA SUVERETO
CHIANTI CLASSICO 2007 DI GREVE IN CHIANTI
CHARDONNAY D’ITALIA 2008
VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI 2008
IL BARBERA
Le origini
Il vitigno Barbera ha origini antichissime e potrebbe corrispondere all’uva “grissa” citata nel 1313 da Pier de’ Crescenzi. Con questo nome compare in un documento catastale a Chieri nel 1514 e dalla fine del 1600 acquista sempre più importanza. Si presume originario della zona di Nizza Monferrato e ciò è suffragato dalla denominazione data dal Gallesio e dall’abate Milano, entrambi nel 1839, di Vitis Vinifera Montisferratensis. È solo in base alle osservazioni ampelografiche più recenti che si ritiene che l’uva grissa di de’ Crescenzi corrisponda alla barbexinis del 1500, ma come andiamo ripetendo da alcuni anni, bisognerà attendere gli esiti delle ricerche bio-genetiche per fare chiarezza.
Il vitigno
Ha foglia media pentagonale e pentalobata, denti irregolari, di colore verde chiaro che tende a divenire più scura con sfumature rossastre all’avanzare della stagione. La pagina inferiore è tormentosa.
Il grappolo è medio-grande, leggermente allungato e tendenzialmente compatto, spesso con piccola ala. L’acino è ellissoidale, da medio a medio-grande, con buccia molto pruinosa di colore bluastro, sottile ma consistente.
Le sue fasi fenologiche sono piuttosto allungate in quanto ha il germogliamento medio-precoce e la maturazione medio-tardiva.
Buona adattabilità ai climi siccitosi e ventosi e trae massima espressione in terreni collinari argilloso-calcarei, ben esposti. Mal si presta a forme di allevamento espanse mentre trova il miglior equilibrio vegeto-produttivo attorno alle 6000-7000 piante per ettaro allegate a guyot o a cordone speronato.
Media tolleranza all’oidio e alla peronospora mentre mal sopporta le piogge nel periodo di fine maturazione che tendono a far chiudere troppo il grappolo con conseguente pericolo di botrite e marciume.
Importanza economica
Il vitigno Barbera continua ad essere, da un punto di visto economico, il più importante del Piemonte ed è anche tra i più importanti a livello nazionale. Con i suoi circa 25.000 ettari coltivati è l’uva più diffusa nelle province piemontesi, e nonostante la forte riduzione di ettari vitati che si è registrata in Italia dal 1990 ai giorni nostri (si è passati da 900.000 ettari a 675.000 con una riduzione del 25%) la (il) Barbera è passata da 47.000 a 28.000 ettari con una perdita di poco superiore al 40%. Così dalla seconda posizione che occupava a livello nazionale, superata soltanto dal Sangiovese, si trova ora al terzo posto, superata anche dal Montepulciano. Si coltiva Barbera anche in Lombardia, soprattutto in Oltrepò Pavese, ed in Emilia Romagna, prevalentemente nelle provincie di Bologna e Piacenza. Può sembrare bizzarro ma troviamo ancora del Barbera, poco per la verità, anche in alcune regioni meridionali dove aveva il compito di aggiungere un po’ di acidità a vini surmaturi.
La denominazione Barbera d’Asti
Nata come DOC nel 1970, ha subito una prima revisione nel 1987 e successivamente nel 2000 con l’entrata in vigore delle tre sottozone “Nizza”, “Tinella” e “Colli Astiani”, che peraltro non hanno avuto finora né una grande adesione da parte degli aventi diritto, né un grande successo commerciale.
Il 12 febbraio 2008, il Comitato Nazionale Tutela Vini a Denominazione d’Origine ha ufficialmente riconosciuto come DOCG il Barbera d’Asti: è stata così accolta la proposta di passaggio dalla DOC alla DOCG, che avrà valenza sin dalla vendemmia 2008.
L’area di produzione interessa 118 comuni in provincia di Asti e 50 in provincia di Alessandria per un totale di 6.232 di cui 5.505 di Asti e 727 di Alessandria.
L’uva Barbera deve essere presente tra 85 e 100% ed è quindi possibile un’aggiunta massima del 15% tra Freisa, Grignolino e Dolcetto. La resa massima di uva per ettaro è di 90 quintali (che scende a 70 nelle Sottozone); le uve devono assicurare una gradazione minima naturale di 11,5° la quale sale a 12° per la categoria Superiore e a 12,5° per le tre sottozone; la resa in vino delle uve non può superare il 70%. L’estratto secco minimo deve essere di 23 g/l ma sale a 26 g/l per le tre sottozone.
Il periodo minimo di invecchiamento parte da 6 mesi e sale ad un anno dal 1° gennaio successivo alla vendemmia per il Superiore ed ancora ad un anno e mezzo, sempre dal 1° gennaio successivo alla vendemmia per le tre sottozone.
Le Barbera d'Asti 2007
Si fa presto a dire Barbera d'Asti, ma poi sappiamo esattamente cosa ci troveremo nel bicchiere? Probabilmente no, anche se sempre più spesso si vorrebbe etichettare genericamente questi vini come delle Barbera più gentili rispetto a quelle di Alba e la contrapposizione tra questi due territori continua a dominare l'immaginario del degustatore medio. Poi, una fredda sera d'inverno, si arriva al Seminario Veronelli e ci si siede dietro ad un vassoietto con quattordici Barbera d'Asti del 2007, rendendosi subito conto, alla prima annusata, come ci si trovi di fronte a vini che non differiscono solo per le sfumature dovute alla mano del vignaiolo o dell'enologo, ma che hanno differenti personalità con profumi e sapori molto diversi e distanti. Allora si vanno a vedere le mappe astigiane e si scopre che in queste terre vi sono lingue di suoli formati da Marne di Cessole, Argille di Lugagnano, Conglomerati di Cassano, Sabbie di Asti, Arenarie di Serravalle, ma anche (udite, udite) Marne di Sant'Agata e Formazione di Lequio. Avete letto bene. Proprio quelle due terre che contrappongono (mi si passi l'estrema semplificazione) i gentili Barolo di La Morra a quelli possenti di Serralunga d'Alba. E se il nebbiolo reagisce così visibilmente a queste terre, siamo sicuri che resti indifferente la barbera? Penso proprio di no e la degustazione di ieri sera ha rafforzato questa convinzione, come credo l'abbia insinuata anche a tutti i nostri degustatori. Alla fine il loro giudizio è stato estremamente logico e correlato a quanto fin qui detto: su tutti e ad una larga spanna troviamo la Barbera d'Asti Ai Suma 2007 di Braida, mitica ed irraggiungibile, che cresce sulle arenarie di Serravalle, coniugando forza ed eleganza; appena sotto troviamo due vini che nascono sui conglomerati di Cassano, il primo a Costigliole d'Asti ed il secondo ad Agliano Terme, e sono la Barbera d'Asti Superiore Bionzo 2007 de La Spinetta e la Barbera d'Asti Superiore Bricco Paradiso della Tenuta Il Falchetto: entrambe regalano potenza e speziatura. Ancora un po' più sotto tutte le altre buone Barbera che hanno sfoggiato la loro distinta personalità e tra tutte voglio segnalare, per il suo inusuale profumo di incenso, la Barbera d'Asti Superiore Nizza Augusta di Borgo Isolabella di Loazzolo, che proviene dalle marne di Cessole; è un'azienda giovane tenuta per mano da un vivace ottantenne, l'avvocato Lodovico Isolabella della Croce che ieri sera ci ha fatto compagnia.
E così, preso dalla foga di queste notizie, mi son dimenticato di parlare del 2007, un'annata che non passerà favorevolmente alla storia per via della sua tirchieria qualitativa e ancor più per l'avarizia quantitativa, ma sul prossimo numero de Il Consenso vi daremo conto anche di questo.
Evviva LE Barbera, allegre e vivaci, a volte esuberanti.
G.B.
I preferiti dei nostri soci:
Bita ha preferito nell'ordine: Ai Suma di Braida, Barbera d'Asti Superiore Montruc di Franco Martinetti e Barbera d'Asti Superiore Nizza Augusta di Borgo Isolabella
Oliviero ha preferito nell'ordine: Barbera d'Asti Superiore Nizaza Bricco Dani di Villa Giada, Bricco dell'Uccellone di Braida e Barbera d'Asti Superiore Nizza dell'Azienda Pescaja.
Gregorio ha preferito nell'ordine: Bricco dell'Uccellone di Braida,Barbera d'Asti Superiore Nizza dell'Azienda Pescaja e Barbera d'Asti Superiore Bionzo 2007 de La Spinetta.
Silvio ha preferito nell'ordine: Ai Suma di Braida,Barbera d'Asti Superiore Bionzo 2007 de La Spinetta e Barbera d'Asti Superiore Montruc di Franco Martinetti.
IL PINOT NERO
Origini e cenni storici
Appartenente ad un gruppo numeroso di vitigni molto antichi, considerati addirittura arcaici, e sorti da seminagioni naturali o da mutazioni gemmarie, pare siano noti in alcune forme sin dal tempo dei romani. Originario della Francia, in particolare dalle zone viticole di Champagne e Borgogna, è stato introdotto in Italia in tempi remoti, tanto che le prime notizie della sua coltivazione risalgono al 1747 per opera del friulano Lodovico Bertoli. Ne esistono due tipologie: il primo, decisamente più produttivo e simile a quello coltivato nella Champagne, che viene utilizzato per la produzione di vini bianchi o spumanti, ed il secondo, simile a quello Borgognone, più indicato per i vini rossi. Deve la sua grande fama ai famosi vini rossi della Borgogna divenuti simbolo di una particolarissima eleganza e quindi imitati in tutto il mondo; ma l’estrema difficoltà sia in ambito agricolo sia in quello enologico rendono la sua diffusione molto ampia ma limitata anche perché vuole climi con forti sbalzi termici tra giorno e notte.
Zone di coltivazione
È praticamente coltivato in ogni regione viticola del mondo, tranne in quelle più calde. In Italia lo si trova quasi in ogni regione del nord ma anche su alcuni pendii toscani ed umbri; ha particolare importanza in Franciacorta, Oltrepò Pavese e Trentino Alto Adige, dove viene anche vinificato in bianco per la produzione dei vini spumanti.
Il vitigno
Di produzione abbondante e costante predilige terreni collinari, freschi, di media o scarsa fertilità, anche se con adatti portinnesti offre ottimi prodotti anche in terreni argillo-calcarei. Produce bene su forme di allevamento poco espanse, tipo guyot e cordone speronato ad alta densità.
Indispensabile l’importanza del terroir: se troppo caldo surmatura e perde in finezza, se troppo freddo accumula poco colore.
Dimostra elevata sensibilità a botrite e marciume acido e media sensibilità a oidio, peronospora e flavescenza dorata. Ben si adatta a gelate primaverili, vento e siccità.
Il grappolo è piccolo, lungo 10-15 centimetri, cilindrico, spesso alato, compatto. Acino di media grandezza, sferoide o leggermente ovale; buccia consistente, un po’ spessa, di colore blu-nero, pruinosa.
Vinificato in rosso produce vini non troppo carichi di colore, fragranti, straordinariamente eleganti, ricchi di profumi fruttati (frutti rossi di sottobosco) e di notevoli speziature (fieno, tabacco e cannella).
Vinificato in bianco, ottimo nella produzione di basi per vini metodo classico, fornisce vini strutturati, morbidi e vellutati, di buona freschezza, con notevoli note fruttate arricchite da sfumature selvatiche.
I risultati della deguatazione
Sappiamo bene che, quando vogliamo parlare di Pinot Nero, dobbiamo mettere da parte le regole che valgono per tutti gli altri vitigni, ad eccezione forse del Riesling Renano, anch'esso decisamente spiazzante ogni qual volta si provi ad imporgli delle griglie interpretative "normalizzatrici". Per questo ci sottraiamo volentieri al tentativo di spiegare come dall'anomalo andamento climatico dell'annata 2007 abbiano potuto scaturire i più che ottimi Pinot Nero assaggiati ieri sera nel corso del nostro consueto "Incontro del lunedì".
Per contro vogliamo, invece, sottolineare come questo vitigno riesca ad assumere personalità così divaricate tra zona e zona, pur mantenendo una sua precisa riconoscibilità. Se, infatti, per la maggior parte degli altri vitigni, nazionali od internazionali, le più rilevanti differenze organolettiche sono generate più dalle diverse tecniche enologiche (anche qui con qualche vistosa eccezione come il nebbiolo nelle Langhe) che non dalle caratteristiche dei territori di provenienza, il Pinot Nero risente invece più nettamente delle diversità ambientali, che si accentuano ancora di più se al differente clima regionale si assommano caratteristiche geo-pedologiche forti, con terreni duri, difficili, minerali. Certo, il concetto è difficile da spiegare con i nostri mezzi piuttosto empirici, ma diviene chiarissimo se pensiamo a come il viticoltore si comporti con queste viti; tutti i bravi vignaioli sanno che il Pinot Nero è un vitigno ostico, capriccioso ed imprevedibile e per questo dedicano una particolare attenzione alla gestione del verde ed a mantenere una bassissima resa per ceppo, che – pare ormai assodato – è un espediente irrinunciabile se si vuole ottenere grande qualità da quest'uva. E l'incredibile varietà di caratteri che il Pinot Nero riesce ad esprimere in luoghi differenti è parsa evidentissima al termine della nostra degustazione, che ha offerto una splendida ed esaustiva panoramica di vini provenienti da pressoché tutte le più importanti zone di produzione italiane, ovvero Trentino, Alto Adige, Piemonte (Monferrato), Lombardia (Oltrepò e Franciacorta, con in aggiunta un'interessante e squisita "anomalia" brianzola), Veneto (Breganze), Friuli (Colli Orientali) e Toscana. Molto acceso e partecipato il dibattito svoltosi tra i degustatori intervenuti, che alla fine hanno nettamente premiato, senza alcuna incertezza, i campioni altoatesini, con l'Alto Adige Pinot Nero Mazzon 2007 dell'azienda Gottardi che l'ha spuntata di misura sull' Alto Adige Pinot Nero Riserva 2007 dell'azienda Stroblhof. Il primo degli inseguitori, piazzatosi però a ragguardevole distanza, è risultato il Villa di Bagnolo Vigna Baragazza Pinot Nero Toscana 2007 dei Marchesi Pancrazi, seguito da tutti gli altri in ordine sparso. La fragrante eleganza, la fresca e succosa mineralità, le raffinate e morbide suggestioni speziate, animali e vegetali del Pinot Nero dell'Alto Adige sembrano, quindi, essere riuscite ancora una volta ad irretire con le loro ammalianti e complesse magie gli esigenti palati di un pubblico attento ed eterogeneo.
GB
I Soci Slow Food presenti hanno preferito:
Bita il Pinero Sebino Pinot Nero di Ca’ del Bosco, Villa di Bagnolo Vigna Baragazza Pinot Nero Toscana 2007 dei Marchesi Pancrazi e Cabreo Black Pinot Nero Toscana di Tenute del Cabreo nell’ordine.
Oliviero l'Alto Adige Pinot Nero Mazzon 2007 dell'azienda Gottardi, l'Alto Adige Pinot Nero Riserva 2007 dell'azienda Stroblhof e Oltrepò Pavese Pinot Nero Noir della Tenuta Mazzolino nell’ordine.
Silvio l'Alto Adige Pinot Nero Mazzon 2007 dell'azienda Gottardi, il Pinero Sebino Pinot Nero di Ca’ del Bosco e Cabreo Black Pinot Nero Toscana 2007 di Tenute del Cabreo nell’ordine.
OLIO EXTRAVERGINE D'OLIVA
Il Patrimonio olivicolo italiano
Ieri sera abbiamo parlato di olio extravergine di oliva e abbiamo cominciato dando i numeri dell'olio italiano. Sono 1,2 milioni gli ettari olivati ed ospitano più di 224 milioni di piante: da esse si producono 612.700 tonnellate di olio. Siamo secondi solo alla Spagna, che ne produce mezzo milione di tonnellate in più, e siamo seguiti dalla Grecia, che ne produce poco più della metà; a distanza seguono Turchia e Siria. Siamo secondi anche nei consumi, con circa 14,5 litri pro capite all'anno contro i 25,5 dei greci, i 13 degli spagnoli e i 6 dei portoghesi.
Delle oltre 600.000 tonnellate di olio che produciamo, l'87,8 % arriva dal Sud, l'11,2% dal Centro ed il restante 1% dal Nord. Dalle tre regioni più produttive – Puglia, Calabria e Sicilia – arriva l'80,3%, da Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo il 13,2%. Dalla Toscana, la regione che in questi anni ha raggiunto la più grande fama qualitativa tra il pubblico, arrivano solo 16.500 tonnellate, che corrispondono al 2,7% della produzione nazionale.
Ma la nostra grande ricchezza è costituita dalla enorme variabilità di cultivar coltivate nel nostro Paese: sono state censite circa 500 diverse varietà, che garantiscono ai nostri oli profumi e sapori estremamente distinti, capaci di sedurre anche i consumatori più esperti, esigenti e preparati. Per contro la Francia dispone di 53 cultivar, 20 la Spagna, 22 il Portogallo, 13 la Grecia e la Siria, 14 la Tunisia, 29 la Turchia. Ecco perché l'Italia è considerata la culla dell'olivo e in tutto il mondo si consuma olio extravergine di oliva italiano; e, soprattutto, tutti quanti nel mondo cercano di produrre olio ispirandosi alle fragranze assaggiate negli oli italiani.
Eppure il mercato dell'olio extravergine italiano è estremamente fragile: la frammentazione produttiva è altissima, numerosissime le proprietà con poche decine di piante, elevata disomogeneità qualitativa, quindi, numerosi sono i passaggi per arrivare al prodotto finito ed il mercato è sopraffatto da prodotti industriali mediocri, venduti a prezzo infimo e di dubbia provenienza. Per questi motivi invitiamo tutti gli italiani, olivicoltori, frangitori, grossisti, commercianti, ristoratori e consumatori, ad avere il massimo rispetto, la massima attenzione e la massima onestà verso questo patrimonio ricchissimo, unico ed insostituibile. Senza poi parlare della salubrità dell'olio extravergine di oliva che è alla base della piramide alimentare codificata nella dieta mediterranea e del ruolo insostituibile che ha nella grande cucina italiana, che miete successi in ogni parte del Mondo.
Ed ecco che, per dare il giusto risalto al lavoro di tanti seri produttori, elenchiamo qui i quattro oli preferiti dal nostro pubblico, suddivisi nelle quattro consuete categorie organolettiche:
Olio dal gusto dolce: Olio Extra Vergine di Oliva (cultivar biancolilla) dell'Azienda Agricola Timpa dei Lupi di Corigliano Calabro (Cs);
Olio dal gusto dolce/piccante: Olio Extra Vergine di Oliva Val di Mazara (cultivar biancolilla) dell'Azienda Planeta di Menfi (Ag);
Olio dal gusto piccante/dolce: Olio Extra Vergine di Oliva Raggiolo Berardenga denocciolato (cultivar raggiolo) dell'Azienda Felsina di Castelnuovo Berardenga (Si);
Olio dal gusto piccante: Olio Extra Vergine d'Oliva Chianti Classico (cultivar correggiolo e moraiolo) dell'Azienda Fontodi di Panzano in Chianti (Fi).
Di tutto e di più, degustazioni comprese, troverete, comunque, sul numero estivo de Il Consenso.
G.B.
LE GRANDI VERTICALI: FARO PALARI
Sono proprio quelle serate che partono in sordina e che crescono lentamente di volume e di intensità a sorprenderci di più e a sorprendere il nostro pubblico del lunedì sera, che non conosceva questo vino e questa terra. Il Faro Palari si è, così, conquistato con molta discrezione e garbo il cuore delle persone che hanno presto capito come ci si trovasse di fronte ad un vino di grande, superba razza.
Non si finirà mai di ringraziare Luigi Veronelli per la lungimiranza, la sensibilità, l'ingegno che ha messo nel suo lavoro: vent'anni fa aveva capito quanto quella terra fosse preziosa, quanto la sua viticoltura rappresentasse un bene inalienabile e come Salvatore (Turi) Geraci fosse il prescelto, l'uomo eletto dal fato per compiere il prodigio. Perché il Faro Palari è un vino effettivamente prodigioso: nasce vent'anni fa in 1500 bottiglie che ancora oggi sanno raccontare l'entusiasmo di un giovane architetto siciliano e la rispettosa creatività dell'enologo Donato Lanati, calati in una terra difficile e impervia con vitigni allora pressoché sconosciuti. Siamo sui Monti Peloritani, a sud di Messina, con scisti e calcari cristallini del Laurenziano, a quasi 500 metri di quota, con pendenze che sfiorano il 50%. I vitigni ufficiali sono Nerello Cappuccio, Nerello Mascalese e Nocera, ma in mezzo agli ottantenni ceppi ad alberello si trovano vitigni rari come Acitana, Core 'e palumba, Galatena e Tignolino.
Di straordinario valore la verticale che, partita con la prima vendemmia del 1990 e con una tappa intermedia del 1998, ha percorso le ultime vendemmie dal 2000 fino all'ultima del 2007, ora in commercio, mostrando nettamente la linea che unisce e lega tutti questi vini così diversi per annata.
Difficile raccontare di colore, profumo, sapore quando persino Veronelli si astenne dal farlo; e se non l'ha fatto lui figuriamoci se mi ci metto io. Dirò solo del piacere e della gioia che se ne ricavano bevendolo e del sentirsi privilegiati quando lo si gusta e lo si condivide.
G.B.
LE GRANDI VERTICALI: I'RENNERO MERLOT VAL DI CORNIA SUVERETO
Non sono moltissimi i luoghi che sanno esprimere le vere eccellenze enologiche, soprattutto se riferite ad uno dei vitigni bordolesi che, è risaputo, ben si adatta a diversi ambienti non solo in Europa ma in tutto il mondo. Stiamo parlando del Merlot e di quelle due o tre isolette della costa livornese dove sa esprimere caratteri di straordinaria qualità, prestanza ed eleganza. Ieri sera abbiamo analizzato la breve ma significativa vita di un Merlot straordinario, il Val di Cornia Suvereto Merlot I'Rennero dell'azienda Gualdo del Re di Nico Rossi e Maria Teresa Cabella.
Le vigne di questa azienda si trovano nel comune di Suvereto, in una zona a sud dell'abitato tra le località di Notri e Forni; i suoli sono formati dalla mescolanza di tre elementi distinti che vanno dalle scisti argillose e calcari bianchi dell'Eocene inferiore, alle sabbie giallastre e ciottoli del primo Quaternario ed ai più recenti depositi alluvionali. Completa il quadro di questa unicità il clima caldo e assolato della costa livornese, qui stabilmente protetto dalla vicina Isola d'Elba. Basta aggiungere un buon vigneto, gestito accortamente per produrre pochi grappoli ma sempre perfettamente maturi, ed il gioco è fatto.
Dimenticavo, però, un particolare di non secondaria importanza: serve anche qualcuno che sappia vinificare nel miglior modo possibile queste uve; ed ecco, dunque, entrare in scena l'artefice di questo grande successo, vale a dire Barbara Tamburini. Di lei si è già detto e scritto molto e, sebbene giovanissima, la sua fama ha superato largamente i confini regionali; tra i suoi tanti successi brilla il Premio Luigi Veronelli al miglior enologo emergente, conferitole nel 2007.
La degustazione ha preso il via con l'annata 2000, la prima prodotta con il Merlot in purezza, ed è proseguita fino all'ultima annata in bottiglia, quella del 2006, andando, quindi, a toccare tutti i millesimi più recenti, tutti rivelatisi così unici ed estremi da mettere a dura prova le capacità interpretative anche del più navigato e rodato enologo. Ma con I'Rennero si è tastato con occhi, naso e bocca come il sodalizio tra ambiente, vitigno ed enologo abbia saputo rendere percepibile e riconoscibile l'identità di un vino pur nella diversità delle sue espressioni annuali. Un ossimoro spiegabile solo con l'unicità dell'ambiente, con la competenza professionale, ma anche con l'amore e la passione per il vino. Quel grande vino che da millenni accompagna la nostra vita.
Risulterebbe persino superfluo dire come, a fine serata, gli applausi siano scrosciati con simpatia e generosità spontanee, ma sappiamo bene quanto il ricordarlo scaldi il cuore a chi li riceve. Sono le grandi emozioni che segnano le tappe di un recente successo, che auguriamo inesauribile a Nico, Maria Teresa e Barbara.
G.B.
IL CHIANTI CLASSICO
Il Chianti Classico è stata una delle prime aree vitivinicole al mondo, se non la prima in assoluto, ad essere delimitata ufficialmente da un documento legale: il primo documento notarile che associa il nome Chianti al vino prodotto in questa rinomata zona risale infatti al 1398. Nel 1716, il granduca di Toscana Cosimo III si risolse a promulgare un bando nel quale venivano individuati in modo preciso i confini dell’area nella quale si poteva legittimamente produrre Chianti. Nel 1924 un gruppo di produttori decise di dar vita al “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine”, in seguito divenuto “Consorzio del Marchio Storico – Chianti Classico”, meglio noto al pubblico come “Gallo Nero”. Anche grazie al loro impulso, nel 1932 venne promulgato un decreto che definiva l’area del Chianti Classico come la “zona di origine più antica”, indicandone i confini che ancora oggi la delimitano. Divenuto DOCG nel 1984 come sottodenominazione della più vasta DOCG Chianti (seppure dotata di un proprio disciplinare più severo), il Chianti Classico viene riconosciuto come denominazione autonoma solo con il Disciplinare del 1996. A fianco della zona classica esiste, dunque, una denominazione più vasta e generica, che comprende ben sette sottozone (Rufina, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Colli Aretini, Montalbano e Montespertoli); l’area più antica ed originaria si estende, invece, in un territorio tutto sommato piuttosto ristretto (circa 70.000 ha complessivi, 8500 ha di vigneto, dei quali 7150 iscritti all’Albo del Chianti Classico) , delimitato a nord dai dintorni di Firenze, a est dai monti del Chianti, a sud dalla città di Siena e ad ovest dalle vallate della Pesa e dell’Elsa. L’ultima revisione del Disciplinare, avvenuta nel 2002, ha portato alcune modifiche, in particolare per quanto riguarda la base ampelografica: la tradizionale “ricetta” elaborata tra il 1834 ed il 1837 da Bettino Ricasoli nel suo Castello di Brolio, che prevedeva l’impiego di sangiovese, canaiolo nero, malvasia e trebbiano, è stata totalmente modificata. A partire dalla vendemmia 2006, infatti, non si possono più utilizzare le uve bianche malvasia e trebbiano, la percentuale minima di impiego del sangiovese, inoltre, è salita dal 75% all’80% (ferma restando la possibilità di utilizzarlo in purezza), mentre per il restante 20% possono essere impiegate “le uve a bacca rossa provenienti dai vitigni raccomandati e/o autorizzati nelle unità amministrative della zona di produzione”, il che significa vitigni autoctoni, tra i quali il canaiolo o il colorino, ma anche internazionali, come cabernet sauvignon, merlot e syrah. La resa di uva consentita è di 75 q/ha, con non più di 3 kg di uva per ceppo, mentre per i nuovi impianti è prevista una densità minima di 3350 ceppi/ha: inutile dire che chi vuole produrre vini di qualità superiore si terrà ben al di sotto (per quanto attiene la resa, soprattutto per ceppo) o al di sopra (per la densità di impianto) di queste cifre.
Dal giugno 2005 i due Consorzi che da 18 anni gestivano la Denominazione con diverse competenze (il Consorzio Vino Chianti Classico aveva funzioni di controllo e tutela, quello del Gallo Nero si occupava di comunicazione e marketing) si sono finalmente riunificati: tutta la produzione di Chianti Classico può quindi fregiarsi del marchio Gallo Nero, inserito direttamente nella fascetta di stato che contraddistingue i vini DOCG.
Caratteristiche climatiche e territoriali
Il clima della zona è di tipo continentale, con temperature invernali molto basse ed estati talvolta caldissime; discrete sono le escursioni termiche giornaliere anche per via dell’altitudine, che varia tra i 250 ed i 700 metri, mentre le precipitazioni annue si aggirano sui 700-800 millimetri, con prevalenza nel tardo autunno ed in primavera. Per quanto riguarda i terreni, la zona del Chianti Classico è in generale ricca di scheletro, ciottoli o sassi, in particolare galestro; sebbene, inoltre, non sia possibile legare un particolare tipo di suolo ai territori dei singoli comuni, possiamo tuttavia indicare a San Casciano una maggiore presenza di galestro, a Greve in Chianti un suolo fortemente argilloso-calcareo (che caratterizza tutte le zone più basse), sulla dorsale dei Monti del Chianti rocce di arenarea, nella parte centro-meridionale una buona dotazione di alberese e, per finire, su gran parte di Castelnuovo Berardenga una decisa presenza di tufo. Queste differenze, seppure non marcate come quelle che caratterizzano altre piccole zone (vedi le Langhe del Barolo), trasmettono differenti sfumature ai vini prodotti sui diversi tipi di suolo. Per fare qualche esempio, le arenarie sembrano infondere un bouquet floreale più intenso al sangiovese; i terreni calcarei aumenterebbero i sentori di frutti di bosco; il tufo donerebbe qualche lieve tocco di tabacco. Le nota più caratteristica, tuttavia, che dovrebbe consentire di individuare senza fallo un Chianti Classico, da qualsiasi zona esso provenga, starebbe in una sensazione di viola mammola, un fresco sentore floreale abbastanza tipico del sangiovese che, in aree più calde (come Montalcino), matura fino ad assumere i toni più dolci e morbidi della rosa canina.
La vendemmia 2007
La vendemmia 2007 è risultata mediamente anticipata rispetto al 2006 di circa una settimana. Non si è verificato, quindi, un grande scostamento sulla data di vendemmia, nonostante il notevole anticipo della ripresa vegetativa, favorita da temperature al di sopra della media, lasciasse prevedere scenari diversi.
Se, infatti, inverno vero e proprio non c’è stato, facendo temere in principio una stagione eccessivamente siccitosa, le piogge di giugno e agosto hanno ridato fiato alla vite. Il decorso della stagione primaverile-estiva ha permesso di ottenere, alla raccolta, uve di ottima qualità con diverse punte di eccellenza, con grappoli perfetti dal punto di vista sanitario e equilibrati in tutte le loro componenti, con un’alta gradazione zuccherina, base certa di vini con ottima struttura.
Durante la fase di vinificazione, i mosti hanno presentato decorsi regolari anche per chi ha effettuato fermentazioni naturali condotte dai lieviti autoctoni, soprattutto nei casi di elevati tenori zuccherini. Proprio la regolarità delle cinetiche fermentative e i contenuti incrementi di temperatura conseguenti, hanno permesso di esaltare l’estrazione della componente aromatica dalle bucce, che ha reso molto fruttati alla svinatura i giovani vini.
La fermentazione malolattica, il cui svolgimento è fondamentale per vini di medio-lungo invecchiamento come il Chianti Classico, si è svolta in una annata come questa con estrema regolarità, avviandosi nella grande maggioranza delle vinificazioni al termine della fermentazione alcolica senza particolari problemi, essendo stata peraltro favorita da un moderato contenuto di acido malico nei mosti.
Dopo la sfecciatura i giovani vini del 2007 sono stati avviati alla fase successiva di maturazione nelle varie tipologie di legno, presentando dal punto di vista analitico mediamente una ottimale gradazione alcolica ed una buona acidità totale, due caratteristiche che, insieme al notevole contenuto in polifenoli totali fanno ipotizzare concretamente la realizzazione di un grande millesimo di Chianti Classico, sia per la tipologia annata che per la Riserva. Inoltre, la componente organolettica fa sicuramente prevedere una evoluzione qualitativa dei vini, volta soprattutto alla durata nel tempo del prodotto.
Il risultato della degustazione
Sono diventate così tante le buone etichette di Chianti Classico che risulta ormai impossibile, per noi, pensare di potergli dedicare una sola delle nostre serate di degustazione del lunedì; così abbiamo pensato fosse più utile concentrare l'attenzione soltanto sui vini prodotti in un singolo comune della denominazione. Abbiamo scelto il comune di Greve in Chianti per via della sua ragguardevole estensione e delle forti differenze territoriali che si trovano al suo interno. Nell'area di Greve, infatti, sembra confluiscano tutti i più caratteristici suoli della denominazione, che vanno dalla Serie Toscana dell'Oligocene (da 36 a 24 milioni di anni fa) ai Complessi Tosco-Emiliani dell'Eocene (da 55 a 36 milioni di anni fa), mentre le vigne si estendono dai più dolci e protetti pendii a 250 metri fino alle più ripide ed esposte colline a 500-600 metri di altitudine. Siamo nel cuore del Chianti Classico e da qui ci pare più facile osservare quell'intricatissimo sistema di rapporti tra l'ambiente, i vitigni (capeggiati dal multiforme Sangiovese affiancato da Canaiolo, Cabernet, Merlot, Syrah, Petit Verdot, continua e continua), le botti (dalle piccole barriques a quelle più grandi da 30 o 50 ettolitri) e quell'infinita varietà e variabilità che l'uomo mette nelle sue azioni, nelle sue scelte, nelle sue interpretazioni. Tutto ciò potrebbe far pensare ad un'inevitabile irriconoscibilità del risultato finale e invece il buon Chianti Classico (quello vero, verrebbe da dire, visto le preoccupanti voci che continuano ad imperversare) riesce sempre a trovare il modo di mostrare e dimostrare la sua riconoscibile e distinta personalità. Il principale merito, forse e provocatoriamente, sarebbe da ascrivere al Sangiovese, a questo straordinario e complicatissimo vitigno, gioia e dolore di ciascun viticoltore ed enologo, che viene sottoposto incessantemente a infiniti processi e sommarie condanne, che oggi viene elevato a sovrano della viticoltura italiana e domani trascinato negli abissi della ruvidezza. Ma poi sappiamo che di Sangiovese ve ne sono tanti, non solo come numero di cloni omologati, e che tutti interagiscono fortemente con l'ambiente, così che questa porzione di Toscana continua ad essere inimitabile e incomparabilmente capace di far sentire la sua matrice. Il nostro pubblico se n'è accorto ed ha premiato tre vini con caratteristiche e caratteri diversi: su tutti svetta il Chianti Classico 2007 di Candialle, che nasce dalla conca d'oro di Panzano; ai suoi piedi un duo formato dal Chianti Classico Villa Nozzole 2007 di Tenuta Nozzole, proveniente dai morbidi rilievi del Passo dei Pecorai, e dal Chianti Classico 2007 del Castello di Querceto, nato in vigne di altura rubate ai boschi di querce e castagni.
A ciascuno un suo Chianti Classico: chi lo vuole schietto e dinamico, chi maturo e riflessivo, chi robusto e placido. A tutti il fascino di cercare un proprio vino con la certezza che qui lo troverà. Ne siamo certi.
G.B.
I nostri soci presenti hanno preferito:
Bita: Chianti Classico Querciabella della Tenuta Querciabella, Chianti Classico Villa Nozzole di Tenuta Nozzole, Chianti Classico Villa Cafaggio di Villa Cafaggio, nell’ordine;
Oliviero: Chianti Classico della Fattoria Casaloste, Chianti Classico Villa Nozzole di Tenuta Nozzole, Chianti Classico Villa Calcinaia di Villa Calcinaia;
Cristiano: Chianti Classico Oro dell’Az. Agr. Cennatorio Inter Vineas, Chianti Classico Villa Nozzole di Tenuta Nozzole, Chianti Classico Viticcio della Fattoria Viticcio;
Silvio: Chianti Classico Villa Nozzole di Tenuta Nozzole, Chianti Classico Querciabella della Tenuta Querciabella, Chianti Classico Castello di Querceto.
CHARDONNAY
Da qualche anno è stato finalmente risolto il mistero relativo all’origine ampelografica di questo vitigno il cui codice genetico, confrontato con quello di altre varietà francesi e borgognone, ha rivelato che la cultivar altro non sarebbe che un incrocio spontaneo tra Pinot noir e Gouais Blanc.
Vitigno a frutto bianco molto diffuso in Francia, circa 40.000 ettari, dalla quale, per il suo adattamento ai più diversi territori, ha avuto una gran diffusione in tutto il mondo: in California lo troviamo esteso per circa 22.000 ha, in Australia 6.000 ha, in Sud Africa 2.500 ha, in Cile e Argentina 1.000 ha.
L’epoca di arrivo in Italia non si conosce anche se notizie della sua presenza si ebbero dal 1600 (Davanzati e Soderini). È stato spesso confuso con il Pinot bianco, assieme al quale veniva coltivato fino al 1963 quando si riuscirono a differenziare le due specie grazie all'intervento dell'Istituto Agrario di San Michele all'Adige che impiantò un vitigno di Chardonnay in purezza importato direttamente dalla Francia. A quel punto non fu difficile scoprire le differenze tra i due vitigni e nel 1978 lo Chardonnay venne regolarmente iscritto nel Catalogo nazionale delle varietà di vite.
In Italia è presente con 12.000 ha e si è inizialmente diffuso nelle zone a particolare vocazione spumantistica, quali il Trentino, la Franciacorta, e l'Alto Adige per poi estendersi a tutte le regioni della penisola.
Ha grappolo medio, piramidale, con un’ala poco pronunciata, compatto. L’acino è medio, di colore giallo-dorato, con buccia di media consistenza, tenera.
Viene considerato il vitigno internazionale più plastico in assoluto, in quanto fornisce sempre ottimi livelli qualitativi con espressioni diverse sulla base delle caratteristiche del terroir. In terreni di origine morenica, quindi sciolti e ciottolosi, produce sentori evoluti e gusti minerali, nelle zone più fresche dal punto di vista pedo-climatico ritarda leggermente la maturazione rendendo più fine il prodotto.
Vitigno vigoroso e dall'alta resa, soffre le gelate primaverili e i ristagni idrici dove può mostrare fenomeni di colatura; è molto sensibile al fitoplasma della flavescenza dorata, mediamente a oidio e botrite, ma dimostra buona tolleranza alla peronospora. Lo scarso spessore della buccia e la compattezza del grappolo possono favorire l’instaurarsi di marciumi nella fase di maturazione.
Risultato della degustazione
Abbiamo sempre accettato il fatto che vi fossero due scuole enologiche per lo Chardonnay: quella di Chablis, che utilizza serbatoi neutri sia per la fermentazione sia per l'affinamento, e quella borgognona, che, invece, prevede esclusivamente l'impiego di barriques sia per la fermentazione sia per l'affinamento. E questi due modelli di produzione hanno condizionato tutta l'enologia del mondo, da quella europea a quella delle Americhe e dell'emisfero australe, ma con una netta supremazia della scuola di Borgogna. Per un certo periodo anche in Italia tutti gli enologi si sono cimentati con queste due scuole, riuscendo ad ottenere, in particolare con l'impiego di barriques, notevoli risultati qualitativi che sono poi serviti come esempi da imitare, limiti da assediare, traguardi da raggiungere. Meno eclatanti i risultati ottenuti, invece, con l'acciaio che, salvo rarissimi casi, non si discostavano molto dalla semplicità degli aromi fermentativi. Di certo non possiamo, però, dimenticare che in Italia, come del resto nella maggior parte del mondo, del modello Chardonnay è stato colto solo l'aspetto enologico e, pur prescindendo dalle differenti caratteristiche ambientali che – ahimè – non sono imitabili, solo raramente si sono visti vigneti ad alta densità di impianto e bassissima produzione per ceppo. In sostanza si è piantato chardonnay mantenendo inalterato il modello viticolo con il quale si è sempre coltivato qualsiasi vitigno e affidando alle sole barriques il compito di compiere il miracolo della trasformazione in vino di caratura internazionale. E, come dicevamo sopra, qualche volta a qualcheduno il gioco è riuscito: in qualche zona con più frequenza; in qualche anno con più facilità. Ora però qualcuno ha decretato che la barrique non è più di moda (mentre spesso restano di moda i vigneti poco efficienti) e allora ecco proliferare in tante cantine tonneaux e botti di svariate capacità, che in comune hanno l'incapacità di fare il lavoro che invece le barriques svolgono egregiamente. Gli Chardonnay alla moda che ne nascono, seppur densi, ricchi e complessi, non sono freschi ed espressivi; sembrano piuttosto delle fotocopie sbiadite, vini aromatizzati con del rovere che accentua la banana, il tabacco e la vaniglia, ma senza aggiungere nulla di originale e di misterioso. Compitini fatti con i bigini sottobanco, tutti uguali, tutti prevedibili, tutti incapaci di emozionare.
Di questo si è parlato ieri sera mentre degustavamo una dozzina di Chardonnay del 2008 provenienti da diverse aree d'Italia; diciamo subito che mancavano i vini della top line, poiché di quelli quest'anno usciranno i 2007, ma il ventaglio della nostra offerta comprendeva vini che in passato ci hanno appassionato, che abbiamo apprezzato e bevuto con grande piacere. Che sia il 2008 che non va? Siamo andati a rivedere i giudizi sulla vendemmia e quasi tutti i commentatori, enologi e agronomi, parlavano di annata positiva, con produzioni un po' scarse ma qualitativamente ottime. Qua e la qualche accenno a stress idrico dovuto ad un'estate molto calda e siccitosa, ma detto con leggerezza, come se fosse una notizia del tutto trascurabile. Eppure si sa che le bugie hanno il naso lungo o le gambe corte, per cui sarebbe meglio dare informazioni corrette in modo da non creare false aspettative nel pubblico, il quale sembra sempre distratto, ma in realtà di tutto si accorge e si arrabbia anche un po'. E, visti i tempi, sarebbe forse meglio non fare arrabbiare il nostro consumatore, dato che sembra essere una razza sempre più in via di estinzione. Pensate che, per trovare un poco di convincente freschezza, ieri sera siamo dovuti scendere paradossalmente fino in Sicilia, nella Contea di Sclafani con lo Chardonnay 2008 di Tasca d'Almerita. Chapeau.
G.B.
I soci Slow Food presenti hanno preferito:
Bita Astori: Collezione De Marchi Chardonnay di Isole & Olena, Chardonnay Sclafani di Tasca d'Almerita, Alto Adige Chardonnay Sanct Valenntin di S. Michele Appiano
IL VERDICCHIO DEI CASTELLI DI JESI
Non si sa il momento esatto nel quale il vitigno Verdicchio fu introdotto nelle campagne marchigiane, ma sembra fin da tempi antichissimi, quando veniva però coltivato senza riguardi alla natura del terreno e alla esposizione e quindi con risultati qualitativi molto diversi.
Attualmente le sue doti vengono meglio espresse per mezzo di una viticoltura più accorta, attenta ai fattori pedoclimatici, e la qualità è in costante crescita.
Il grappolo è di media grandezza o quasi grande, serrato, spesso cilindro-conico, a volte alato e piramidale. L’acino è medio, rotondo, con buccia sottile e consistente, di colore verde giallastro mediamente pruinosa.
È un vitigno vigoroso a germogliamento medio-tardivo, preferisce terreni tendenzialmente argillosi e zone di collina arieggiate e bene esposte. È difficile che si adatti a forme per la meccanizzazione integrale per la delicatezza dell'uva. Ha scarsa resistenza alle crittogame ed in particolare all'oidio ed alla botrite.
Oltre che nelle Marche, lo si trova coltivato anche in Umbria, Puglia e Lazio.
Nel contesto viti-vinicolo si associa subito al vino Verdicchio dei Castelli di Jesi, vino conosciuto in tutto il mondo nell'originale quanto esclusiva bottiglia a forma di anfora, disegnata dall'architetto Maiocchi negli anni '50.
Le citazioni poetiche che il Verdicchio si è guadagnato nel corso della sua secolare storia sono moltissime: tra le tante vale la pena ricordare quella di Piero Aretino, noto poeta toscano del ‘500, che nonostante la fama di denigratore di tutto e tutti, spese parole soavi per esaltare le virtù dietetiche e gustative del Verdicchio.
La storia del Verdicchio dei Castelli di Jesi è tuttavia caratterizzata da alti e bassi. A momenti di vigore negli anni '60, grazie all'enorme quantità esportata, hanno fatto seguito periodi di appannamento nel decennio successivo, dovuti soprattutto alla mancanza di qualità per la grande richiesta sul mercato. Ha preso poi nuovo vigore a partire dalla metà degli anni '80, grazie all'intuizione di alcune aziende che, studiando ed esaminando cloni di Verdicchio, sono riuscite ad estrarre un vino dall'enorme personalità e longevità, dando al Verdicchio dei Castelli di Jesi un'immagine duratura e consolidata nell'ambiente viti-vinicolo mondiale. La zona di produzione interessa soprattutto il comprensorio comprendente le colline al centro della provincia di Ancona e in minima parte alcuni territori in provincia di Macerata.
Per i vini prodotti nella zona originaria più antica, i Castelli di Jesi, è concesso l’uso della menzione Classico. I comuni interessati sono quelli posti sulle vallate a ridosso del fiume Esino delimitate dalla linea che da Ostra-Arcevia scende a sud fino a Cupramontana-Apiro. Al di fuori di questo quadrilatero viene prodotto il Verdicchio dei Castelli di Jesi nella versione "normale".
Numerose le tipologie prodotte: favorito dalla sua struttura, dal terreno e dalle condizioni microclimatiche può essere prodotto nelle versioni spumante, secco, riserva (minimo 25 mesi di affinamento) e passito.
Il risultato della Degustazione: che grande il Verdicchio
Il Verdicchio dei Castelli di Jesi si sta rivelando, sempre con crescente convinzione, uno dei più grandi vini bianchi italiani. Ha infinite capacità di adattarsi a diverse interpretazioni enologiche, diverse impostazioni produttive, diverse pratiche colturali rimanendo sempre se stesso, perfettamente riconoscibile, tanto ne sono nette e forti la personalità e l'identità. I suoi caratteri organolettici di base risultano sempre distinguibili e di volta in volta capaci di adattarsi, modificarsi, connettersi, saldarsi ad altri dettagli, rifiniture, influenze.
Ieri sera, a conclusione del ciclo di degustazioni del lunedì, abbiamo testato tredici Verdicchio dei Castelli di Jesi – 10 Classico Superiore e 3 Classico Riserva – che ci hanno confermato la grandissima attitudine di questo vitigno a ben adattarsi anche alle annate un poco anomale e tanto calde come quella del 2008. Un'annata iniziata con una primavera calda ma umida, e quindi con grandi problemi di sanità delle viti, e proseguita con una fine estate calda e siccitosa, e quindi con problemi di stress idrico, conclusasi, però, positivamente con una riduzione di produzione e con una buona maturazione anche fenolica dei grappoli. Se la maggior parte dei Bianchi italiani si sta presentando sul mercato con i suoi 2009, è molto significativo che Jesi presenti solo ora i suoi 2008, a conferma di come dal Verdicchio nascano vini dal lungo respiro, in grado di esprimersi progressivamente per lungo tempo e che, proprio per questo motivo, hanno bisogno di tempo per maturare, per affinarsi, per rendersi più intriganti e complessi. Sarà dovuto alle marne calcaree del Miocene e alle argille marnose del Pliocene; sarà dovuto alle correnti appenniniche e alle brezze adriatiche; sarà dovuto ai caratteri genetici della varietà; sarà dovuto alla sapienza, sintesi perfetta tra sapere (tradizione) e scienza (rivoluzione), degli uomini che lavorano le vigne e di quelli che lavorano nelle cantine; sarà l'insieme di tutti questi fattori che crea quell'unico ed inimitabile terroir chiamato Verdicchio dei Castelli di Jesi, tanto affascinante che ci è venuta un'irrefrenabile voglia di andare a visitare questi paesaggi, ammirare queste terre ed annusare l'aria che le accarezza.
Su tutti i buonissimi vini assaggiati ieri sera, dal giudizio del pubblico si sono stagliati nettamente il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Tenuta del Cavaliere 2008 dell'Azienda Marchetti Maurizio e il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Balciana 2008 dell'Azienda Sartarelli: così lontani stilisticamente, così diversi per impostazione tecnica, ma così buoni da rendere difficile qualsiasi scelta esclusiva.
G.B.
I Soci Slow Food presenti hanno preferito nell’ordine:
Bita Astori: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Balciana dell'Azienda Sartarelli; Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Tenuta del Cavaliere dell'Azienda Marchetti Maurizio e Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Podium dell'Azienda Garofoli; Silvio Magni: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Tenuta del Cavaliere dell'Azienda Marchetti Maurizio Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Balciana dell'Azienda Sartarelli e Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Verde di Cà Ruptae dell'Azienda Terre Cortesi Moncaro.