Quante volte ristoratori, manager e persino grandi chef criticano – in maniera costruttiva – giornalisti e opinionisti del mancato racconto in merito al servizio in sala? Sempre troppe. E, probabilmente, un motivo c’è
Sono più d’una le motivazioni che spingono i narratori di storie culinarie, critici gastronomici e giornalisti a focalizzarsi sulla figura dello chef e della sua cucina. Partiamo dal fatto che quando ci si siede a tavola la maggior parte delle persone – compresi gli addetti ai lavori – sono pronti con mente analitica verso ciò che mangeranno. Quello che ti arriva nel piatto è sezionato, passato ai raggi X, messo in relazione con ciò che di quella mano stellata si è letto, studiato, provato in precedenza. Colori, impiattamenti, temperature, guarnizioni, insomma il livello di dettaglio di analisi possibile è davvero ampio e profondo. Si dedica tempo al piatto. Il tempo di annusarlo, il tempo di contemplarlo, il tempo di girarlo un po’ a destra e un po’ a sinistra per vedere come cambia e se cambia da più lati. A quel punto si impugnano forchetta e coltello e si è pronti all’assaggio.
Talvolta si è anche un po’ emozionati perchè si è finalmente giunti alla conquista di quel boccone che magari ci è anche costato sei mesi (o più) di attesa. Timidamente, si infilza il primo boccone e un flusso di pensieri prepotente inizia ad attraversarci il cervello. Più la cena è blasonata e stellata più la nostra mente tende a non lasciarsi andare, a non godere di quella spontaneità e piacevolezza del mangiare che è propria di tavole più informali. Quindi partiamo con riflessioni, commenti, pensieri, annotazioni, riflessioni, paragoni. Ed è un continuum senza sosta, tanto tra chi voce in capitolo ne ha sul serio, tanto tra chi per sua fortuna e passione gode di tante esperienze differenti. Prima di tutto questo però c’è un momento, spesso troppo breve, spesso talmente delicato da non essere percepito, che precede il nostro boccone. È la fase in cui una portata arriva al tavolo e ci viene posizionata davanti. Questo attimo si fonde tra le chiacchiere dense di due commensali, viene talvolta calpestato da un momento social, una fotografia che sembra non poter aspettare o addirittura una telefonata.
Questo è il tempo della sala, anzi questo dovrebbe essere il tempo della sala, che invece viene drasticamente ridotto in un attimo, in un afflato sofferto e vissuto con il timore continuo di dover interrompere, di dare fastidio. Anche quando c’è una pausa nel chiacchiericcio del tavolo, finalmente pronto all’ascolto, ecco che ci si ritrova a spiegare una portata certi che non resterà molto di quelle parole. Perchè sì, possiamo dirlo, ci sono della superficialità e della banalità che troppo spesso accompagnano l’approccio al cameriere, alla sala, al servizio.
Se è pur vero che i piatti di uno chef sono la sua voce e il suo pensiero, è altrettanto vero che tutto acquista un senso e un significato compiuto se la squadra scelta per accompagnare quei piatti è in grado di raccontarli dignitosamente e di servirli con orgoglio. Non c’è ristorante senza sala, non c’è esperienza gastronomica senza sala e così come i suoni e gli odori nell’aria sono in grado di influenzare la nostra percezione così anche il servizio, la coccola costante che riceviamo durante il nostro pasto, è funzionale a un maggiore godimento. Non basta (più) essere veloci e professionali. Non basta essere attenti e completi nelle spiegazioni. Ci vuole quel grado di personalizzazione in più, quella rielaborazione personale più o meno marcata ma sufficiente a scaldare l’atmosfera e i momenti rubati. Il fine dining è una grandissima danza, non solo di equilibri gustativi ma di ogni singolo elemento che va ad incastrarsi perfettamente negli ingranaggi di una cucina e di uno stile. Anche la Sala deve imparare a tirare fuori la sua voce, la sua identità, ritagliandosi una posizione non per nulla minore rispetto alla cucina. Ci vuole un punto di vista, un approccio – non passivo – un’idea, un dettaglio, una modalità. Qualcosa che ti consenta di mettere una firma in ciò che fai e non solo di essere notato da un tavolo, ma di essere desiderato e aspettato, quindi ascoltato e magari anche interrogato.
Una buona sala è il pepe alla nostra esperienza, il Maldon a fine cottura, il fluidificante per qualunque momento della nostra cena. Ci accompagna senza mai farsi sentire invadente ma dando una direzione al nostro viaggio, accompagnandoci e facendoci notare le tante piccole epifanie che si possono incontrare in quel menu degustazione. È una continua ricerca, anche questa, verso una perfezione che non esiste ma che tende a un equilibrio ideale e ogni volta diverso tra commensale e cameriere per riuscire in quell’intesa precisa che renderà memorabile la nostra cena. Signori, è giunto il momento di restituire tempo alla Sala. Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Chiara Buzzi , Foto di Gaia Menchicchi per Forketters, 07.04.2023