Da mezzadria al “Rinascimento” del Novecento nel segno di Tachis. Con gli accademici Giuliano Pinto, Paolo Pirillo, Andrea Zagli e Zeffiro Ciuffoletti lungo la storia che ha visto protagonista l’enologo piemontese
Giacomo Tachis è il vino italiano del secondo dopo guerra. Un enologo capace di avere una visione completa della produzione vinicola. Dall’innesto alla vendita. Parola di chi, davvero, lo ha conosciuto. Racconti e storie legati alla figura di un enotecnico mitologico, scomparso nel 2016. Tra le sue intuizioni ci sono il Sassicaia, il Tignanello e i sardi Turriga e il Carignano del Sulcis di Santadi, giusto per citarne alcune. Vini che sono la punta di un iceberg profondo come la storia della vitivinicultura della penisola, dai suoi albori a quello che è paragonabile ad un vero e proprio rinascimento avvenuto in Toscana.
Ed è proprio dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto che esce un ritratto completo di Tachis, lo schivo, il sornione, il bibliofilo, il diretto, il piemontese, lo schietto. Come quando, parola del professor Zeffiro Ciuffoletti, disse a dei viticoltori marchigiani che avevano appena piantato una vigna di un ettaro e mezzo, di abbassare tutto di almeno 10 centimetri. Conosceva i risultati che voleva ottenere e marciava in quella direzione. L’humus toscano in cui arriva l’enologo di Poirino (Torino) è quello della disgregazione del retaggio di sette secoli di mezzadria. Una parola cara alle cronache, ai carteggi, agli scritti della storia della Toscana agricola. Un sistema, mai uguale a se stesso che ha caratterizzato la storia dei popoli toscani, in un binomio sempre franco tra proprietari terrieri e lavoratori.
È proprio in casa di chi la storia l’ha scritta, i Marchesi Antinori, sotto l’occhio curioso del padrone di casa Piero, che accademici delle Università di Siena, Firenze e Bologna hanno descritto il muoversi della storia del contado e della vitivinicoltura in Toscana in un convegno dal titolo “Per Giacomo Tachis, la vitivinicoltura in Toscana e la sua Evoluzione Contemporanea”, andato in scena nell’auditorium della cantina di Bargino, Antinori nel Chianti Classico.
La storia, raccontata dal medievalista Giuliano Pinto, professore emerito dell’Università di Firenze, inizia dall’anno 1000: “dalla cerealicoltura alla recente produzione di vino. Non dimenticandosi l’olivicoltura, sviluppatasi a partire dall’età moderna. Un documento dell’epoca riportava quanti ulivi vi erano in un appezzamento di terra per indicarne il valore. Inoltre le cotture, nel mangiare popolare, erano a base di lardo, con la mezzadria si è evoluta poi la cultura dell’olio. Mentre la viticultura è sempre stata una costante. Anche in accezione religiosa, il vino assunse ruolo centrale. Nelle funzioni, nell’iconografia dei santi. Le vigne divennero appannaggio anche delle città, in particolare negli spazi vuoti delle cinta murarie. La mezzadria poderale, darà il via alla coltura promiscua ricca di filari. Una pratica ed un apparato che ha segnato la storia dalla fine del medioevo fino alla seconda metà del secolo scorso. Lo sviluppo demografico nella Firenze di Dante coincideva con il consumo di 250.000 ettolitri di vino complessivi all’anno.
Le maggiori famiglie fiorentine del tempo investirono molto nella viticultura, arrivando poi al podere. Il vino si vendeva anche nei Palazzi delle famiglie, attraverso delle piccole finestre (ancora oggi visibili, le “buchette”, come quella restaurata recentemente proprio a Pazzo Antinori a Firenze, ndr). Qualche grande famiglia fece arrivare dalla Liguria innesti di Vernaccia. Con i secoli finali del medioevo, iniziano i passaggi che portano il primato al vino rosso e, più avanti, lo sviluppo delle denominazioni come le conosciamo oggi con le singole pertinenze geografiche. Inizia anche la commercializzazione oltre i confini della Regione. I passaggi finali sono l’introduzione della legge per la tutela della denominazioni all’inizio degli anni ‘60 del 1900, l’eliminazione dai rossi delle bacche bianche e l’inizio dell’utilizzo dei vitigni allogeni. Fino ad arrivare a primi anni ‘80 con la produzione dei vini nuovi”.
Il racconto della vitivinicoltura in Toscana prosegue con la messa a fuoco dell’idea di vino come bene “di lusso”, o meglio con l’affermarsi dell’interesse progressivo di realizzare un prodotto di qualità. Con la relazione di Paolo Pirillo, docente presso l’Università di Bologna: “sino dai primi secoli dell’età medievale, il vino non è appannaggio di tutti. È riservato agli strati più alti della società. Alla prima metà del 1200, in Francia alla corte di Filippo II, si hanno delle fonti che descrivono il profondo gusto del re per i vini bianchi. Addirittura si fece aiutare da un sacerdote per classificare i vini migliori, scomunicando i vini non buoni. In Oriente troviamo la stessa situazione, così come a Costantinopoli. Con lo sviluppo urbano, cambia l’approccio e la diffusione del vino: c’è lo sviluppo del ceto sociale, ovvero la borghesia cittadina che inizia ad interessarsi al vino. La vigna diventa uno status symbol, per i cittadini. Ad esempio come quando Federico II scende in Italia, distrugge le vigne come gesto simbolico. La generalizzazione del vino, porta all’esigenza di fare distinzioni tra un vino comune e un vino di lusso. I vini più pregiati sono i vini che arrivano da Oriente, come dalla Romania. Il vino che arriva da Levante, raddoppia il prezzo di origine, passando da Venezia che ha in mano il commercio. La risposta di Genova, che non poteva rimanere a guardare, è iniziare a sponsorizzare la Vernaccia delle Cinque Terre. Arrivando al quattordicesimo secolo, si ha l’introduzione della Malvasia che giunge dal Peloponneso ed entra al centro della vita enoica per più di un secolo. La Toscana inizia la sua produzione di vino, seguendo la tendenza e le richieste di un pubblico sempre più vasto. Il Trebbiano è tra i vitigni più diffusi. E non solo vino viene sfuso nei Palazzi, ma inizia la diffusione delle taverne. Produrre vino inizia così a diventare organizzazione, ed è per questo motivo che si diffonde il contratto di mezzadria. L’aumento di produzione ha quindi bisogno di infrastrutture, che si concentrano maggiormente intorno alla città, tra le tre diocesi di Firenze, Fiesole e Siena. Nel giro di due anni la produzione di vino si diffonde in tutta la regione, ed il catasto inizia a definire le stime economiche delle zone di produzione; il primato, ovvero la zona con il valore più alto è il Chianti”.
Il vino diventa dunque un’organizzazione. Così si è entrati in un’epoca di relativa modernità, lontano dal sistema di impresa ma con una forma piuttosto originale, frutto di una complicità tra gli strati della società, uniti da un continuo dibattito tra la preservazione delle condizioni pregresse e lo sviluppo. Il sistema mezzadrile approda così nell’età moderna, come riporta il professor Andrea Zagli dell’Università di Siena: “l’economia mezzadrile ha caratterizzato la regione Toscana per quasi sette secoli, regolando il rapporto città-campagna e al suo interno, il binomio proprietario della terra e chi la lavora. Le campagne producevano la sopravvivenza di chi lavorava la terra ed una ricchezza per coloro che la possedevano. La mezzadria ha permesso l’urbanizzazione, in una struttura elastica. La costruzione del paesaggio urbano e dei suoi beni culturali del patrimonio paesaggistico. Attraverso lo studio dei conti, delle documentazioni delle fattorie, o degli enti pubblici, si è riuscito a ricostruire una visione generale della gestione della società mezzadrile. Alla fine degli anni 80, l’interesse per lo studio delle campagne è stato trascurato ed abbandonato. Dallo studio dei carteggi familiari, in particolare quelli tra proprietà cittadina e quella degli agenti di campagna. In questi carteggi è tratteggiata la vita quotidiana delle campagne. L’andamento meteorologico, le strategie di vendita dei prodotti, la produzione e il vino e la produzione di ricchezza. La figura di raccordo tra la nobiltà proprietaria della terra e i contadini era il fattore. L’andamento meteorologico e il suo impatto su vendemmia e stato del vino erano indicate con dovizia di particolari, il vino cambiava a seconda degli eventi atmosferici. Conseguenza diretta, la difficoltà o meno di commercializzazione. A partire dal diciassettesimo secolo, in pieno stallo del commercio dei cereali, la viticultura aumenta la sua produzione e i porti iniziano ad acquisire ruolo centrale, come quello di Livorno. L’espansione dei mercati verso mete più lontane richiede una maggiore capacità di resistenza del vino e l’aumento della concorrenza richiede una qualità maggiore. La conservazione del vino rosso diventa necessità primaria”.
Tassello dopo tassello, si traccia il puzzle che porta alla Toscana del vino per come la conosciamo al giorno d’oggi. Con le grandi Denominazioni che traino il comparto di un territorio vocato anche alla coltivazione di vitigni internazionali, che poi ne hanno fatto la vera fortuna. Riprendendo il corso della storia, da dove l’avevamo interrotto dalla relazione del professor Zagli, ovvero il problema del “mezzo di trasporto”, Zeffiro Ciuffoletti tra le altre professore ordinario dell’Università di Firenze, membro dell’Accademia dei Georgofili, ci traghetta, come Virgilio con Dante, verso l’epoca contemporanea: “alla fine del ‘600 la Toscana è in surplus di produzione di vino e mai in quella di grano. Nell’economia della Toscana il vino è fondamentale. Ed è proprio nel 600 che avvengono le grandi trasformazioni, dall’incremento demografico ai mutamenti climatici. Questo ricolloca la cultura della vite in Europa, attraverso una prima globalizzazione che porta il vino al centro di un economia mondiale. In questo contesto la figura di Cosimo III dei Medici diventa fondamentale. I suoi decreti assumono un ruolo centrale. Nel contesto di aver unito la competenza di una commissione, di cui faceva parte anche Antonio Antinori, che inizia a dare degli input molto simili ad una Denominazione. Un censimento delle uve, legandole ai territori e poi ad i vini. Gli editti sono due, che delimitano i territori di produzione del vino. La commissione istituisce oltretutto un organismo di controllo. Viene regolamentata anche la confezione con cui viene trasportato e commercializzato il vino. Infatti la Toscana aveva il fiasco e la botte, che si esponevano a rischi molto alti o di alterazione del vino o della rottura del vetro. Poco dopo l’unità di Italia, il divario con la Francia è enorme. Il bel Paese è indietro abissalmente nel commercio mondiale del vino. Un problema che si basa anche sull’incapacità di trasportarlo. Arriva la crisi della fillossera, ed è la Francia a perdere grossissime fette di mercato, l’Italia è pronta nel subentrare ma la mancanza di identità del vino, esempio ne è il Chianti che viene prodotto non solo in Toscana ma anche in Campania o in Sicilia, non ci consente di assestarci o stabilizzarci. Nel frattempo la Francia dà seguito al riconoscimento delle singole zone di produzione. Negli anni 20 e 30 la fillossera arriva anche in Italia. Per passare al piede americano, bisogna rivoluzionare completamente l’economia della viticultura. Nel secondo dopoguerra la mezzadria ha finito il proprio ciclo. La Toscana ha un ruolo propulsivo e si trova all’apice. Non solo per i sistemi di produzione intensiva, che segnano significativamente il paesaggio rurale toscano. La meccanizzazione e il cambiamento dell’agricoltura coincide con lo sviluppo. L’approccio di Giacomo Tachis in questo contesto è cruciale nell’evoluzione del vino. Basandosi su due punti fondamentali, l’umiltà di guardare ai più bravi, in fatto di qualità (la Francia) e andare oltre i disciplinari. Nascono così etichette storiche che hanno fatto la storia. Come il Tignanello e il Sassicaia”.
L’umiltà di guardare a chi era il più bravo in quel momento e la tenacia di spingersi oltre le denominazioni, le tradizioni, introducendo i vitigni internazionali. Andare oltre “l’ermo colle” leopardiano e non fermarsi ai ragionamenti da bar sport, il segno e la firma di Giacomo Tachis sono incisi in questi due punti cardinali. Fonte: WineNews, 16.11.2018