Nell’Europa meridionale, dove i preziosi funghi hanno il loro habitat ideale, le estati per colpa del cambiamento climatico sono sempre più calde e secche, rendendo la vita difficile ai coltivatori
In quell’ombreggiato boschetto di querce nella Spagna nord-orientale c’era qualcosa che non andava.
Gli agricoltori infatti avevano sempre più difficoltà a raccogliere quei profumatissimi tartufi che prima erano soliti trovare lì, stretti alle radici di quegli alberi. E questo è quanto hanno riferito a Ulf Büntgen, scienziato dell’università di Cambridge. Forse i loro alberi non stavano bene – supponevano – oppure era cambiato qualcosa nell’habitat locale.
Büntgen ha parlato anche con agricoltori italiani e francesi. Lungo le coste del Mediterraneo occidentale ha ascoltato le stesse storie: con quei particolari funghi, così difficili da trovare e così costosi, c’era qualcosa che non andava. Il problema è che tanti piccoli agricoltori si basavano proprio su di loro per incassare una sostanziosa parte del proprio reddito annuo.
Avendo raccolto queste testimonianze da un’area così ampia Büntgen, da buon scienziato del clima, ha pensato che dietro tutto ciò potesse esserci una spiegazione climatica. E, forse, che il cambiamento climatico stesse esacerbando il problema.
Ci sono voluti diversi anni per mettere insieme i pezzi ma
adesso, lui e il suo team, hanno trovato il collegamento che cercavano. Secondo lo studio che hanno pubblicato su Environmental Research Letters di luglio, la produzione di tartufi risente molto della quantità di pioggia caduta nel corso dell’estate precedente al raccolto.
E nel Mediterraneo occidentale le precipitazioni estive sono cambiate fortemente nel corso degli ultimi 40 anni, con siccità estive sempre più intense e temperature in aumento. Tutto ciò contribuisce ad aumentare lo stress sul sistema naturale – già delicato di per sé – di cui i tartufi hanno bisogno per sopravvivere.
“Quando ci si imbatte in modelli così sincronizzati lungo un’area così ampia, il driver di solito è il clima”, dice Büntgen.
I tartufi valgono molti soldi: si stima che il mercato globale possa crescere di oltre sei miliardi di dollari nel giro di dieci anni.
In parte, questo si spiega col fatto che sono funghi particolarmente schizzinosi. Alcune varietà, come il super-costoso tartufo bianco, non possono essere coltivati in alcun modo. Si trovano solo in qualche antica foresta di querce rimasta intatta in giro per l’Europa, e generalmente si vendono a quasi 2000 euro al chilo.
Altri tipi, come il più comune tartufo nero Perigord, possono invece essere coltivati, seppure con qualche imperfezione.
Crescono sottoterra, di solito abbarbicati alla sottile e profonda rete delle radici degli alberi di quercia, in una speciale simbiosi. I tartufi prendono dalle radici piccoli sorsi di zucchero e acqua e, in cambio, restituiscono all’albero i nutrienti del terreno. O, almeno, questa è la teoria. I dettagli esatti di questa cooperazione sono contenuti in una specie di scatola nera, perché è molto difficile, per gli scienziati, studiare le interazioni sotterranee. Nel momento esatto in cui estraggono un tartufo per studiarlo, infatti, il suo habitat viene distrutto e questo rende impossibile qualsiasi analisi.
Fin dall’Ottocento gli agricoltori italiani, spagnoli e della Francia meridionale hanno piantato alberi “amici del tartufo” e si sono presi cura dei boschetti con tecniche che ritenevano potessero favorire la crescita del fungo. Ma con l’intensificarsi delle attività agricole lungo tutto il continente, le antiche foreste di querce sono state – in molti casi – distrutte, causando così anche la perdita dei tartufi che vi si associavano. E’ stato così che negli anni Cinquanta coltivatori, scienziati e intere comunità hanno iniziato a pensare a come coltivare questi preziosi funghi, sviluppando “piantagioni” semi-strutturate di querce che potessero aiutare i tartufi a crescere. Oggi in Spagna, Francia e Italia ci sono oltre 40.000 ettari di piantagioni di tartufi, che costituiscono circa l’80% di tutto il mercato legale.
Diversi agricoltori hanno installato sistemi di irrigazione per mantenere gli alberi in salute durante le estati calde e secche dell’Europa meridionale. Altri hanno sperimentato, introducendo un’ampia biodiversità nei loro boschi, altri ancora hanno provato diverse tecniche di inoculazione. Ma nonostante tutti questi strumenti e strategie, ogni anno il raccolto è una scommessa. Uno dei possibili fattori di stress, secondo agricoltori e scienziati, è il cambiamento climatico.
“Sono assolutamente consci dell’impatto climatico“, dice a proposito degli agricoltori Yildiz Aumeeruddy-Thomas, un antropologo culturale al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica francese che ha lavorato insieme a diverse comunità coinvolte nell’economia del tartufo in giro per l’Europa. “Queste persone osservano molto da vicino le complesse interazioni tra condizioni atmosferiche e l’ambiente in cui cresce il tartufo“.
Gli scienziati-osservatori hanno assistito a un’ampia gamma di condizioni meteo: primavere piovose; estati calde con qualche spruzzatina di pioggia, inverni miti. In alcuni anni è andata bene e il raccolto è stato abbondante.
Altre volte, però, non è andata altrettanto bene. Soprattutto quando le estati erano lunghe, calde e siccitose. E quanto Büntgen e i suoi colleghi si sono messi a scartabellare tra i 49 anni di dati a loro disposizione, hanno notato che le estati estreme sono diventate via via sempre più comuni in alcune parti dell’Europa meridionale tra gli anni Settanta e i primi anni Duemila. E coincidevano con gli anni in cui il raccolto di tartufi era particolarmente scarso.
Hanno poi scoperto che non erano tanto le temperature ad essere decisive, ma la quantità di pioggia caduta nel corso dell’estate precedente all’inverno di raccolta. Il caldo sembrava peggiorare la situazione, dal momento che le temperature più alte aumentavano lo stress idrico degli alberi. Ma dagli anni Novanta in poi, la pioggia è stato il fattore più importante.
Sorprendentemente questa tendenza non è cambiata neanche per le piantagioni in cui gli alberi venivano irrigati: l’acqua con la quale gli agricoltori innaffiavano le querce veniva quindi sprecata.
I climatologi prevedono che i periodi siccitosi si intensificheranno ancora, mano a mano che il pianeta si riscalderà. Secondo Paul Thomas, uno scienziato esperto di funghi all’università di Stirling, nel Regno Unito, questo vorrebbe dire che il tartufo nero si sta avvicinando al limite della sua soglia di sopravvivenza.
“Dal 2071 molte zone climatiche dove oggi si raccoglie il tartufo nero non saranno più adatte a questo scopo, a causa del cambiamento climatico“, dice Thomas, “e non è detto che potremo irrigare, perché è probabile che l’acqua sarà più scarsa”. “Sarà un futuro molto difficile per i tartufi“, conclude. Fonte National Geographic, Alejandra Borunda, 12.07.2019