Sarebbe bello se fosse un mezzo attraverso il quale cantare la nostra appartenenza territoriale senza confini né legacci, valorizzando l’ambiente e le sue persone
Come si fa a parlare di pizza oggi? Cosa si può aggiungere al fervente dibattito già in corso da oltre un decennio su impasti, tecniche e prodotti? Anche nel “mondo pizza”, come in tutta la società, si assiste a numerosi schieramenti: c’è chi è legato a doppio nodo alla tradizione e chi porta in tavola pizze fatte con impasti le cui formule farebbero invidia a un chimico, chi non rinuncerebbe mai al forno a legna e chi invece ritiene che, indipendentemente dal tipo di energia utilizzata, ciò che conta è la tecnica di cottura. Possiamo dunque davvero dire che ce n’è per tutti i gusti.
Ma cos’è oggi la pizza? Sicuramente un piatto dalle origini popolari, che è in grado però anche di finire nei menù degli chef più acclamati in Italia e nel mondo. Un primo dato di fatto è che la pizza, pur essendo nata diversi secoli or sono, sta ben salda nella contemporaneità. E il merito non è solo dei cornicioni alveolati o degli ingredienti sempre più ricercati ma della grande intelligenza di quelle pizzaiole e di quei pizzaioli che sanno leggere l’esperienza della gastronomia dei giorni nostri. In questi anni di “militanza gastronomica”, mi è capitato spesso di dialogare con gli artigiani che sfornano ogni giorno questa eccellenza del nostro Paese e vedere come si evolvesse in loro il pensiero di una pizza che sapesse interpretare il sentimento più moderno dell’ecologia gastronomica. Ed è attraverso le parole di questi artigiani, molti dei quali tra loro hanno scelto di sposare le linee guida del progetto dell’Alleanza Slow Food dei Cuochi, che voglio raccontare il messaggio attuale di questo piatto eterno.
Salvatore De Rinaldi è un ambasciatore della tradizione: maestro istruttore dell’Associazione Verace Pizza Napoletana, ha iniziato a usare lievito madre da diversi anni, in barba al disciplinare. Grazie al suo ruolo, due anni fa ha convinto l’Associazione a modificare il regolamento facendo inserire la possibilità di usare farine meno raffinate e lievito madre al posto di quello di birra. Per lui, quando si parla di contemporaneità, lo si fa spesso contrapponendo nuove mode alla tradizione napoletana e non c’è nulla di più sbagliato. Perché, come aggiunge Michele Croccia – pizzaiolo a Caselle in Pittari (Salerno), aderente alla stessa associazione – la pizza oggi deve tenere insieme i suoi valori immutabili come la genuinità e la tradizione facendo particolare attenzione ai cambiamenti climatici e la sostenibilità ambientale. Già, ma in che modo? Marzia Buzzanca – pizzaiola nata a Tripoli, vissuta a L’Aquila e oggi attiva in Sudtirol – sostiene che nella pizza “contemporanea” ciò che conta di più è l’impasto. Lei, ad esempio, seleziona grani e farine tradizionali, come l’enkir, e condisce poi il disco di pasta con prodotti che raccontano i tanti territori italiani. Patrick Ricci – originario di Arpino, la città di Cicerone ma “adottato” in Piemonte sin da quando era giovanissimo – mi ha invece confidato: “Dire contemporaneo è come dire gourmet, parola senza grande significato. Oggi, molti parlano di pizza contemporanea riconducendola al fatto che si sia avvicinata alla cucina. La pizza però è stata sempre in cucina, anche se è stata considerata sorella minore di un dio maggiore. Oggi questo messaggio sembra essere stato sdoganato”. La pensa così anche il ventisettenne casertano Ciccio Vitiello, autore di una vera rivoluzione in questo mondo, il quale sostiene che la pizza oggi è libertà. Libertà di espressione e di pensiero. La pizza – mi dice – deve ricordare e far ricordare: “Quando esce dal forno, una pizza è finita, dobbiamo dunque capire che la pizza parte da molto prima, dal pensiero, e il pensiero è tecnica”.
La contemporaneità di questo piatto sta dunque soprattutto nell’approccio, che è diventato più “slow”. Perché oggi la pizza è stata sdoganata da quel rigido classicismo che ci siamo portati fino all’inizio di questo millennio, a favore di un ritorno alla “maniera più antica”, ovvero quello in cui si pongono ingredienti, talvolta molto ricercati, su dischi di pane. Non dobbiamo nascondere che sono stati proprio i pizzaioli (insieme ai cuochi, beninteso) a rendere noti i Presìdi Slow Food ben oltre i loro confini, salvandoli dall’estinzione, diventando modelli di economie che hanno consentito ai giovani di vivere in territori erroneamente ritenuti marginali. Ecco perché mi piace chiudere questa carrellata di racconti con una pizzaiola dell’alleanza nata a cavallo tra Campania e Lazio e oggi attiva in Piemonte, Federica Mignacca. Qualche anno fa, in occasione di Cheese, a Bra, si è autodefinita una “pizzaiola anarchica”. Essa sostiene che la pizza deve diventare “comunitariocentrica”, ossia un prodotto per il quale l’imprenditore, l’artigiano e il produttore lavorano individualmente secondo le proprie competenze, ma uniti moralmente. Questo vuol dire, a mio avviso, generare reti e proteggere un territorio, valorizzando l’ambiente e le donne e gli uomini che lo abitano. Sarebbe davvero bello dunque se la pizza del futuro fosse foriera di contaminazione, un mezzo attraverso il quale cantare la nostra appartenenza territoriale, senza confini né legacci. Fonte: la Repubblica, IL GUSTO, Carlo Petrini, 24.04.2022