Il volume di Michael Pollan “In difesa del cibo” fa luce su cosa renda un alimento salutare e sulla scarsa consapevolezza di quello che ogni giorno portiamo sulle nostre tavole
Avete mai seguito una dieta? Vi siete svegliati un bel giorno e, guardandovi allo specchio, avete deciso di rimettervi in forma. Vi siete recati al supermercato più grande e fornito della zona e avete riempito il carrello di prodotti a basso contenuto calorico, avvolti in confezioni colorate che promettevano una grande quantità di proteine, zero grassi e, soprattutto, pochi, pochissimi carboidrati. Ecco, se tutto questo, o qualcosa di simile, vi è capitato sappiate che Michael Pollan avrebbe qualcosa da ridire sul vostro comportamento. Perché voler perdere peso o cercare di seguire un’alimentazione sana, rispettosa della salute, dovrebbe essere un problema?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro e chiederci che cosa sia un’alimentazione sana, cos’è che rende un cibo salutare e quanto siamo consapevoli di quello che ogni giorno portiamo sulle nostre tavole. È questo il tema centrale di “In difesa del cibo”, edito in Italia da Adelphi, opera del celebre giornalista e saggista americano Michael Pollan. Cosa dobbiamo mangiare noi essere umani per restare in buona salute? Siamo sicuri che a renderci più sani siano i nutrienti che compongono un cibo e non la storia di quell’alimento, com’è stato prodotto, com’è finito nella nostra dispensa e i modi in cui viene consumato? Sono tutte domande legittime, anche se l’autore sottolinea ironicamente quanto sia perlomeno strano che gli esseri umani siano l’unica specie che per affrontare un tema così basilare come quello dell’alimentazione debbano rivolgersi agli esperti. Nessun altro animale ha bisogno di un nutrizionista per sapere cosa mangiare. In effetti, posta in questi termini, la questione appare paradossale.
In difesa del cibo, dicevamo. E da cosa deve, dunque, essere difeso il cibo? Da un lato dalla scienza della nutrizione, dall’altro dall’industria alimentare, ci risponde Pollan. La prima ha la grave colpa di aver scomposto il cibo nei suoi nutrienti, riducendo un’arancia, ad esempio, al suo solo contenuto di vitamina C e facendoci credere che mangiare sia una semplice necessità biologica a cui possiamo rispondere con quella o quell’altra teoria alimentare. Ma l’uomo ha sempre mangiato per diversi motivi oltre che per nutrirsi: il piacere, la convivialità, la famiglia, la religione, il rapporto con la natura e la definizione dell’ identità collettiva e personale. Mangiare è sempre stata tanto una questione di cultura quanto di biologia.
Il secondo elemento da cui il cibo deve essere difeso, quello riconducibile all’industria alimentare, lega invece la sua stessa esistenza al business e al profitto. Pollan, in tal senso, denuncia come le malattie croniche che affliggono la maggior parte della popolazione siano direttamente riconducibili all’industrializzazione del sistema alimentare: crescente diffusione di alimenti trattati e precotti e di cereali raffinati; uso di prodotti chimici per coltivare piante e allevare animali; sovrabbondanza di zuccheri e grassi; calorie a buon mercato prodotte dall’agricoltura industriale; riduzione della varietà biologica a poche colture di base: frumento, mais e soia.
Come sottrarsi a tutto questo? Come arginare la dieta occidentale e la tendenza a quella che Pollan descrive come ortoressia, ovvero l’ossessione insana per il mangiar sano? Se volgiamo lo sguardo al passato capiamo immediatamente che le abitudini alimentari dei popoli sono sempre state le più diverse, ma erano tutte in qualche modo riconducibili all’utilizzo di alimenti naturali. È come se l’animale umano fosse in grado di adattarsi ai regimi alimentari più svariati a eccezione del nostro. La scienza della nutrizione sembra non vedere però questo dato, probabilmente, scrive Pollan, perché si è sviluppata parallelamente all’industria alimentare e quindi adotta tutta una serie di cibi manipolati, che ad esempio aumentano le proteine e diminuiscono i grassi, anziché metterli in discussione.
Il rimedio a tutto questo? Semplice: non mangiare nulla che le nostre bisnonne non avrebbero riconosciuto come cibo. I prodotti che affollano gli scaffali dei supermercati con i loro colori ingannevoli, gli aromi artificiali, i dolcificanti sintetici e i nuovi grassi confondono i nostri sensi ai quali solitamente ci affidiamo per valutare le caratteristiche di un alimento e non ci lasciano altra scelta che mangiare in base alle indicazioni delle etichette. E poi, mangiare poco, di tutto, meglio se vegetale e fresco per la maggior parte. Evitare i cibi sconosciuti o dai nomi impronunciabili o che contengano più di 5 ingredienti. Insomma voltare le spalle all’industria più potente al mondo, quella capace di modificare le regole della catena alimentare, di spingere i governi a variare le leggi a seconda delle proprie necessità e di influenzare ricerche scientifiche e teorie millenarie. Potrebbe sembrare semplice se si pensa che tutto si riduce alle scelte individuali che ognuno di noi compie ogni giorno facendo la spesa, ma la storia dell’Occidente ci dimostra quanto spesso le problematiche più semplici da risolvere in teoria poi non superino le prove della pratica quotidiana. Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Letizia Buonfiglio, 08.04.2022