Lo dice Paolo De Castro. L’eurodeputato dem spiega che gli agricoltori italiani avranno a disposizione da gennaio 2021 almeno 1,2 miliardi del NextGenerationEu.
Ma parla anche dell’accordo per tutelare gli alimenti Igp in Cina, e il rischio del Nutri-Score per i nostri prodotti
L’ultima settimana il Parlamento europeo ha ottenuto un risultato importante: dal 1 gennaio 2021 gli agricoltori italiani riceveranno 1,22 miliardi di euro dal NextGenerationEu. L‘agricoltura è la prima componente che va all’accordo definitivo. L’Italia potrà ricevere subito questa parte dei 208,8 miliardi di euro e non dovrà aspettare la metà del 2021 come invece dovrà fare per il resto dei fondi del piano, nella migliore delle ipotesi. Questo accordo raggiunto col Consiglio dei ministri Ue è in parte merito anche dell’eurodeputato Paolo De Castro che è stato relatore per il Parlamento europeo.
«In teoria la nuova Politica agricola comune entrerà in vigore il primo gennaio 2023 per consentire questo negoziato molto articolato sul bilancio comunitario che ci vede ancora in piena discussione tra Parlamento Consiglio e Commissione europea. Ma non ha senso aspettare il 2023 perché i fondi del NextGenerationEu per lo sviluppo rurale servono in questo momento agli agricoltori per mitigare gli effetti della crisi economica», spiega De Castro. «Dei 10 miliardi di euro che arriveranno 8 sono previsti dal NextGenerationEu, mentre altri 2,6 miliardi stanziato in precedenza dalla Commissione. Al’Italia andranno 1,22 miliardi di euro. Ma attenzione, in realtà sono 2,4 miliardi di euro perché è obbligatorio il cofinanziamento al 50%. Poi se vogliono gli Stati possono dare di più».
Eppure il vice presidente della Commissione Ue, l’olandese Frans Timmermans, ha sempre detto di non voler finanziare la vecchia Pac con le nuove risorse.
Per questo abbiamo chiesto di anticipare i cambiamenti già in questa Pac 2021-2022, indicando alcune priorità per ottenere questo anticipo. Primo, tutti gli Stati membri dovranno obbligatoriamente investire almeno il 37% di queste risorse sbloccate per delle misure agroambientali. L’8% invece può essere usato per aumentare questa quota o può essere utilizzata per finanziare le tradizionali misure legate allo sviluppo rurale. La rimanente parte (55%) deve essere dedicata agli investimenti sostenibili.
Facciamo qualche esempio, perché il termine “sostenibile” può voler dire tutto e niente.
Ci sono tanti modi in cui le aziende possono usare i fondi europei per migliorare la sostenibilità. Penso al precision farming, ovvero l’investimento in tecnologie che riducono le emissioni e il consumo di carburanti o combustibili fossili, che accelerano la digitalizzazione delle aziene o i processi per rendere più efficienti i mezzi tecnici. In quel 55% di investimenti ci sono misure importanti per i giovani agricoltori, come il premio di primo insediamento che viene aumentato da 70 a 100mila euro. È uno sforzo importante e per la prima volta è stato approvato all’unanimità da tutti i gruppi politici della Commissione agricoltura del Parlamento europeo: 47 voti a favore e due astenuti.
Sul resto della riforma della Politica agricola comune però c’è stato meno accordo tra i vari gruppi politici con alcune spaccature interne, soprattutto dei parlamentari più ambientalisti.
Sono abbastanza soddisfatto. Penso alla fine il Parlamento europeo abbia raggiunto un equilibrio tra sostenibilità ambientale, sostenibilità economica e sostenibilità sociale. È la prima volta nella storia della Pac che leghiamo gli aiuti al rispetto delle norme sul lavoro. La condizionalità sociale non era mai stata presa in considerazione. E la nostra proposta di riforma è sicuramente più ambiziosa della proposta della Commissione e del Consiglio dei ministri dell’agricoltura. Noi abbiamo alzato l’asticella della sostenibilità ambientale prevedendo il 30% delle risorse per gli ecoschemi e il 35% nell’agroambiente. E abbiamo incorporato anche le indicazioni degli accordi di Parigi sul clima.
Molte Ong non lo ritengono un accordo soddisfacente e sostengono che si sia tradito lo spirito del Green deal europeo.
Voglio rispondere proprio a queste critiche, perché si è fatto un errore nel valutare la proposta del Parlamento. Abbiamo inserito una clausola mid-term review, una revisione che sarà fatta nel 2025 quindi a due anni di applicazione della Pac per poter incorporare il Farm to fork e il Green deal quando questi atti diventeranno norme cogenti legislative.Non possiamo essere accusato di non voler incorporare qualcosa che non esiste ancora concretamente. Inserire una comunicazione o un’idea vorrebbe dire abdicare al ruolo del Parlamento. Dobbiamo discutere, votare deliberare un piano, non qualcosa che ancora non esiste concretamente.
Quanto dureranno secondo lei negoziati triloghi sulla Pac, cioè quelli tra il Parlamento europeo, Commissione e Consiglio Ue?
È impensabile che si concluda nell’arco di pochi mesi. Ce ne vorranno almeno sette-otto perché stiamo parlando di un pacchetto con tre atti legislativi. Tradotto: 400 pagine di testi di norme. La scorsa volta con Dacian Ciolos (ex commissario europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale nella commissione Barroso II, dal 2010 al 2014, ndr) ci sono voluti 53 triloghi. Me lo ricordo bene perché li ho fatti tutti da presidente della Commissione del Parlamento europeo per l’agricoltura.
Uno degli aspetti più interessanti di questa riforma proposta dal Parlamento europeo è che gli Stati membri dovranno presentare piani strategici sulla PAC, ma con l’ok finale della Commissione. Perché?
Chiariamo questo punto: il Parlamento ha radicalmente cambiato la proposta originale della Commissione che avrebbe dato troppa libertà agli Stati membri. Un rischio di rinazionalizzazione per noi era assolutamente inaccettabile. L’abbiamo corretto: i piani strategici li fanno gli Stati membri ma sulla base delle misure proposte dalla Commissione e approvate da Parlamento e Consiglio, sempre in co-decisione. Non ci saranno 27 politiche agricole agli antipodi ma i Paesi Ue avranno più flessibilità. La “vecchia” riforma della Pac non ha funzionato perché si è rivelato sbagliato decidere a livello centrale due o tre cose e renderle uguali per tutti gli Stati membri che oggettivamente hanno caratteristiche diverse. Pensiamo solo alla superficie ecologica, una cosa è applicarlo in Finlandia che ha l’80% di foreste, un altro è a Malta dove c’è lo 0%.
Ma non c’è il rischio che i piani nazionali siano a loro volta troppo centralizzati e non tengano conto delle diverse esigenze delle regioni?
Proprio per evitare il rischio di una ri-centralizzazione in Paesi come il nostro che hanno un ruolo importante delle Regioni, abbiamo incluso nella proposta di riforma il fatto che ad attuare i piani non sia un gestore unico. Ma uno o più. Per capirci i piani di sviluppo rurale non saranno fatti solo dal ministero dell’Agricoltura.
Ha attirato la nostra attenzione un aspetto più “pop” della Riforma Pac il veggie-burger-ban, la norma per vietare l’impiego di denominazioni relative a carne per prodotti che sono in realtà a base vegetale, come l’hamburger vegano. Lei da che parte sta?
Sono contrario all’utilizzo dei termini “hamburger”, “scaloppina”, “bistecca”, se non sono legati all’origine zootecnica. Avevamo preparato un emendamento proprio in questo caso perché abbiamo mutuato la decisione della Corte di Giustizia Europea che ha vietato le etichettature fuorvianti per i prodotti lattiero-caseari. Il nostro emendamento non è passato, così come non è passato neanche quello dei favorevoli. Semplicemente il Parlamento europeo ha deciso di non decidere. Per ora è rimasta la situazione attuale che a mio avviso è confusa. Finché non ci sarà una maggioranza dentro le istituzioni comunitarie fanno bene gli Stati membri a legiferare livello nazionale per chiarire che i prodotti a base vegetale debbano avere un’altra denominazione. La Francia lo ha già fatto,
A proposito di etichettature degli alimenti, Secondo Coldiretti quasi l’85% dei prodotti Dop/Igp sarebbero danneggiati dal Nutri-Score sviluppato in Francia perché diventerebbero cibi da “semaforo rosso” e dannosi per la salute. Cosa sta facendo il Parlamento europeo per tutelare i nostri prodotti?
È una battaglia in cui ci giochiamo moltissimo. La grande distribuzione e alcune multinazionali appoggiano il Nutri-Score perché catalgoando con i colori verde, giallo e rosso gli alimenti in base alla loro presunta pericolosità della salute, si riduce il potere della marca a discapito delle catene commerciali che possono fare campagne dei prodotti “verdi” e attirare di più i clienti. Al momento sul tavolo oltre alla proposta francese c’è anche quella del Nutri-Inform (proposta da Italia, Cechia Cipro, Grecia, Ungheria, Lettonia e Romania con una grafica che rimanda alle batterie ndr) e quella svedese del Key-Hole che porrebbe solo un’etichetta verde nei prodotti più sani.
Qual è il problema del Nutri-Score?
È un sistema di etichettature fuorviante perché non informa il consumatore, ma lo condiziona dando di fatto delle pagelle al prodotto. Mette il bollino rosso all’olio extravergine o al miele perché c’è una piccola componente di grasso, di zucchero o di sale che non fanno bene alla salute, se presi in grande quantità. Invece bisognerebbe solo informare dicendo che se una porzione del genere viene consumata in gran quantità, allora si supera di molto il proprio fabbisogno giornaliero di grasso o di zucchero. Detto così è un’altra cosa. Per non parlare di alimenti come le patatine fritte, le lasagne o le pizze surgelate a cui il Nutriscore assegna il colore verde, ma che poi diventerebbero rossi una volta cotti o fritti. Speriamo che la Commissione arrivi al 2022 con una proposta equilibrata e scientificamente provata che dia informazioni e non crei condizioni di serie A e serie B.
Il Parlamento europeo nella sessione plenaria ha dato il via libera all’accordo con la Cina per la tutela dei 100 prodotti Igp europei nel mercato cinese. Perché è così importante?
Perché è il primo concreto passo avanti nei rapporti commerciali con Pechino, ed è, un tema che ha visto impegnata la Commissione per molto tempo. Noi come Parlamento avevamo segnalato più di una volta la necessità di garantire una fetta rilevante delle indicazioni geografiche protette. Grazie a questo accordo che abbiamo fatto anche in Messico, Vietnam e Canada, i nostri 27 prodotti igp italiani saranno protetti nel mercato cinese che dopo gli Stati Uniti è il secondo mercato delle esportazioni agroalimentari europee Non ci preoccupava che le aziende cinesi iniziassero a produrre il prosciutto San Daniele o l’aceto balsamico. Ma che i cinesi potessero comprare dall’Australia o da altri paesi del mondo che producono imitazioni delle indicazioni geografiche europee e particolarmente italiane.
Non sono pochi 26 prodotti Igp italiani?
I cento prodotti Igp europei di cui 26 italiani, rappresentano oltre il 95 per cento del fatturato dell’export alimentare Ue in Cina. In questi casi si scelgono sempre le indicazioni geografiche che hanno più possibilità di commerciare. Non ha senso chiedere di proteggere una nostra eccellenza che non esporta nulla nel mercato cinese.
Cosa intendiamo concretamente con “proteggere” i prodotti?
Tutti le aziende di prodotti Igp italiani sono protetti dalle leggi europee in Europa, ma non possono denunciare le imitazioni nel resto del mondo. Se al supermercato di Rio de Janeiro si trova il “parmigianito regianito” non si può far nulla sul piano giuridico perché in Brasile i produttori rispondono alle leggi brasiliane, non a quelle europee. Purtroppo le indicazioni geografiche protette non hanno un copyright internazionale. E anche le aziende che ce l’hanno, come la Ferrero Rocher, ci hanno messo otto anni per rivalersi sulle aziende imitatrici. Ecco perché l’Unione europea stipula accordi con i vari Paesi per far sì che i prodotti Igp siano tutelati legalmente. Fonte: Linkiesta, Andrea Fioravanti, 16.11.2020