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Gen 25 2021

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IL LAND GRABBING È UNA SERIA MINACCIA PER L’AMBIENTE (E PER I DIRITTI UMANI)

Grazie ad accordi iniqui, molte aziende multinazionali dell’agri-business e alcuni Stati hanno sottratto 79 milioni di ettari ai Paesi emergenti per poi sfruttarli in modo non sostenibile. Questo fenomeno, i cui esiti si sono decuplicati in dieci anni, devasta la biodiversità e forza all’emigrazione le popolazioni locali

Sono 79 milioni gli ettari di terra fertile che multinazionali dell’agri-business e della finanza, investitori internazionali e Stati si sono accaparrati a danno delle comunità di contadini locali e dei popoli indigeni. Il fenomeno del land grabbing, cioè dell’appropriazione di enormi appezzamenti di terreno, è un fenomeno che da anni non percepisce crisi, ma che al contrario, nonostante il forte impegno dei movimenti ambientalisti e le promesse delle aziende europee, trova sempre più slancio. Dal 2008 a oggi è cresciuto del 1.000%, e a marzo 2020 erano 2.100 gli accordi firmati per attività riconducibili all’espropriazione di terreni.

Secondo il rapporto “I padroni della terra” di Focsiv, una federazione di Ong italiane, la corsa alla terra ha riscosso perfino nuovi investimenti per la produzione di monoculture edi biocarburanti, per la creazione di piantagioni e il taglio di foreste, per l’estrazione mineraria, per progetti industriali e turistici, per l’urbanizzazione. Il tutto realizzato in modo non sostenibile, escludendo le popolazioni indigene e causando migrazioni forzate.

A partire dagli anni Duemila si è creata «una nuova geografia dell’accaparramento su scala mondiale», spiega Pierluigi De Felice, ricercatore di geografia presso l’Università di Salerno. «Gli Emirati Arabi per esempio hanno strappato in Africa e in Asia oltre 2 milioni di ettari per l’approvvigionamento alimentare, mentre le multinazionali italiane si sono accaparrate più di un milione di ettari sottoscrivendo accordi in Sud America, in Africa e nell’Europa orientale» continua De Felice. Accordi che prevedono l’accaparramento di terre per le risorse bioenergetiche e alimentari come il riso, la soia e l’olio di palma, e che vedono in campo colossi aziendali come la Herakles Farms, la Socfin, la Olam, impegnati in filiere quali il caucciù, il caffè e il cacao.

I territori contesi sono quelli dell’America Latina e caraibica, del continente africano e del Sud-Est asiatico, nonché quelli dell’Europa orientale. Mentre i principali Paesi investitori sono Canada, Stati Uniti, Cina e Italia. Il nostro Paese negli ultimi anni ha comprato o affittato un milione e 100 mila ettari con 30 contratti in 13 Paesi, fra cui l’Etiopia: le aziende italiane beneficiano di un affitto per 70 anni, per il valore di 2,5 euro l’ettaro. Mentre Pechino per esempio ha messo le mani su tre milioni di ettari dell’Ucraina e su buona parte degli appalti per l’edilizia urbana e infrastrutturale nell’Africa, e ha anche mosso i primi passi in Groenlandia, perseguendo i suoi interessi anche grazie alla collusione con il governo inuit – invitato a stabilire sul territorio cinese la prima ambasciata permanente. 

«Esiste più di un metodo per espropriare i terreni, e contro ogni logica gran parte di questi sono considerati legali», puntualizza Andrea Stocchiero, policy officer presso la Focsiv. «Spesso le aziende e gli Stati agiscono in assenza di leggi o eludono quelle esistenti. Alcune nazioni, come il Congo, si sono dotate di riforme per tutelare i propri cittadini prima della vendita dei terreni. Il problema è poi l’applicazione concreta, che non prevede mai la coordinazione con la popolazione, ma anzi tende a sfavorirla» aggiunge Stocchiero.

Il Congo è produttore del 70% del cobalto in commercio, e la richiesta di materiale negli ultimi anni è aumentata al punto che le aziende, pur di rimanere sul mercato, ricorrono al lavoro deregolato. Questo comporta espropriazione di terre, condizioni di lavoro drammatiche, violazione dei diritti umani. Che si ripetono anche per mano di quattro importanti banche europee di sviluppo: la Deg tedesca, la Bio belga, la Fmo olandese e il Cdc Group inglese, che hanno investito milioni di euro nelle attività della Feronia Inc., una società congolese che, attraverso la sua controllata, la Plantations et Huileries du Congo, gestisce tre piantagioni di palma da olio su oltre 100.000 ettari nel Nord del Congo. Secondo Human Rights Watch (Hrw), più di 200 lavoratori della Feronia sono esposti a pesticidi cancerogeni e molti di loro lavorano per meno di 1,50 dollari al giorno.

Tra le banche coinvolte sbuca a sorpresa anche la Banca Mondiale, che secondo l’Oakland Institute, a causa di alcuni progetti di classificazione delle terre, tende a influenzare riforme nel settore agricolo a favore della grande industria ma a discapito delle piccole comunità locali. L’istituto californiano si concentra anche sugli effetti della diga Gilgel Gibe III in Etiopia, sul fiume Omo. Costruita dall’azienda italiana Salini Impregilo per garantire la produzione di energia elettrica e collegata a un sistema di irrigazione per le piantagioni a valle, la diga sta mettendo a rischio al vita di circa 300mila tra contadini e pastori nomadi, rispettivamente rimasti senza campi e costretti a diventare sedentari.

I danni del land grabbing possono infatti essere sia di tipo ambientale sia di tipo sociale. The Rights and Resources Initiative registra che nel 2015 sono morte 185 persone per difendere la proprietà terriera, mentre 472 leader indigeni sono stati uccisi dal 2017 al 2019 per essersi opposti alla devastazione e all’inquinamento di foreste, terra e acqua. Per i popoli indigeni i terreni sono «la principale fonte di sopravvivenza, e una loro privazione vuol dire soccombere» continua Stocchiero. Questo modello provoca quindi «espulsioni e migrazioni, ma anche rivolte in grado di far cadere un governo: come è successo in Madagascar dove una società sudcoreana tentò di sfruttare le terre per produrre grano e olio di palma scatenando il malcontento dei malgasci». 

Lo sfruttamento con colture intensive che degradano suolo, acqua e fauna fanno inoltre perdere biodiversità e contribuiscono al riscaldamento del Pianeta. Questi due fenomeni e le produzioni fondate sull’estrattivismo, che genera terre e acque morte, può causare la mutazione e la diffusione di virus: «È il caso del coronavirus e della probabilità di un aumento delle pandemie nel prossimo futuro che mostrano l’urgenza del cambiamento», chiosa Stocchiero.

Come intervenire per arginare il fenomeno? «Bisogna in primis insegnare alle comunità locali come valorizzare e ottimizzare l’uso delle risorse indispensabili alla loro sopravvivenza. Un’azione tutt’altro che semplice perché necessita di accordi bilaterali con i governi locali e impone di promuovere il ruolo della donna e la solidarietà tra le diverse classi sociali», conclude Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, presidente Gecoagri LandItaly.  Fonte: Linkiesta, Piero Mecarozzi, foto Unspalsh, 25.01.2021

 

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