In occasione della presentazione (virtuale) della guida Osterie d’Italia 2021 di Slow Food, gli osti si sono messi a confronto e hanno individuato due punti cardine “necessari” per la ripresa: l’utilizzo delle materie prime del territorio e la valorizzazione della socialità. Perché non si può vivere di solo delivery
Foto di Marco Varoli
Raccontare un’osteria non è mai cosa semplice. Un’osteria vive dei suoi tavoli, si muove in una cucina di territorio fatta di materie prime genuine, è riconoscibile e connotabile per e con il luogo in cui si trova e ruota attorno a chi l’ha creata. L’oste. Nell’immaginario comune sono baffuti e tondi, ma ce ne sono alti e smilzi, giovani e con i tatuaggi, ci sono le ostesse con il sorriso aperto e la gioia di chi si muove tra tavolo e cucina, tutti sempre con il grembiule addosso e la voglia di portare saperi e sapori nel piatto. Ogni osteria è un scrigno di tradizione, ricerca, attenzione, cordialità, che in questo lungo periodo di aperture e chiusure ha sofferto (e molto), forse più di altri, perché gli è stato tolto il principio su cui vive e si basa la sua formula magica: il fattore umano.
Che sia stato un annus horribilis per la ristorazione lo sappiamo tutti, che lo sia stato in particolar modo per chi sulla socialità ci vive, anche. Il 2020 ha costretto gli osti e le osterie a grandi rinunce, e un punto di merito va a Slow Food Editore, che, con rinnovato entusiasmo, ha proposto la sua annuale guida Osterie d’Italia 2021 – Sussidiario del mangiar bene all’italiana, uno strumento che ci fa viaggiare – per ora – solo con la fantasia ma che dimostra solidarietà a cuochi e brigate, facendosi portavoce di storie di cui è un peccato non parlare.
E così si è giunti alla trentunesima edizione, resa possibile dalla presenza di oltre 200 collaboratori, coordinati da Eugenio Signoroni e Marco Bolasco, e una recensione di 1697 osterie, incluse le pizzerie della Campania, i fornelli in Puglia e le piadinerie in Emilia Romagna. In questo periodo stralunato Le Chiocciole – segno distintivo di eccellenza di Slow Food – non sono state assegnate proprio perché, per par condicio, andrebbero dovuto essere conferite a tutti per coraggio, caparbietà e amore. Infine, a rendere ancora più completa la guida, sono state aggiunte due sezioni digitali, la prima sul blog di Slow Food Editore, con tutte le attività intraprese dalle osterie, e un forum on line, che lo scorso 23 novembre ha visto gli osti e Slow Food a confronto per analizzare le criticità, ma soprattutto per mettere in atto proposte e soluzioni concrete.
La crisi non ha certo spento la voglia di reazione «anche se ci aspetta un compito difficile» afferma Carlo Petrini, Presidente Slow Food, all’apertura del dibattito digitale. «Il lavoro che ci attende sarà molto oneroso, perché non si tratta di far ripartire l’economia come era prima, ma di immaginarne un’altra. Questo è un momento storico estremamente difficile, non solo per l’Italia, ma per l’intero pianeta. La crisi è sì di natura pandemica, ma è anche una crisi climatica ed economica. Bisogna partire dalla consapevolezza che in tutti questi anni non siamo ancora riusciti a spostare la nostra attenzione e la misura della nostra economia dall’unico parametro del profitto, spostando l’asse verso nuovi parametri condivisi come il bene comune e il bene relazionale».
«Abbiamo bisogno di un cambiamento e questo non ce lo insegna solo il coronavirus» afferma Juri Ghiotti, da sempre sostenitore di un modello basato sulla totale autosufficienza, a impatto zero e bio, nel suo Reis Cibo Libero di Montagna, in Valle Varaita, vicino Cuneo. «La pandemia ha solo amplificato la necessità di cambiamento e in questo le osterie e gli osti possono diventare un esempio per cambiare il sistema. Avvicinarsi ad una economia di prossimità, che impatti il meno possibile sull’ambiente, è una delle soluzioni più praticabili, e che può, al tempo stesso, mantenere saldo il principio dell’andare al ristorante: lo stare bene e il mangiare bene». In un meccanismo economico che è legato a doppio filo con il territorio in cui vive e di cui vive, i piccoli produttori rappresentano il “fattore X” dell’offerta gastronomica locale, portando eccellenza ed esclusività, materia prima che fa distinguere per sistema produttivo oltre che per gusto.
Un concetto, questo, che vede allineati tanti osti, di diverse zone d’Italia. Da “Teresa Bistrot sul mare”, dove il mare è quello toscano di Viareggio (Lu), e in cui la cucina non è solo quella del territorio, ma di ricordo, Cristiano Pezzini ribadisce l’importanza del luogo e della prodotto «Quando si pensa alla qualità non bisogna limitare la propria attenzione ai prodotti IGP o DOP, è necessario concentrarsi sulla vera economia di prossimità, che non è semplicemente fatta di prodotti, ma di persone, di contadini, di casari, che vengono scelti per quello che producono e per come lo producono».
«Le forze politiche devono cambiare la loro ottica» aggiunge Roberto Casamenti de “La Campanara”, osteria con locanda nell’alta Val Bidente sull’appennino Romagnolo, una casa di sasso “con l’accurata minuzia di chi non ha fretta” per dirla alla Gabriel G. Marquez. «Chi governa deve comprendere che abbiamo bisogno di essere aiutati come categoria perché siamo noi a far vivere le piccole aziende. Dare aiuti a pioggia all’agricoltura è come dare metadone a un drogato, servono degli sgravi sui beni acquistati dai produttori locali, che muovano la circolarità dell’economia. Chi sopravvive oggi è la grande distribuzione e se noi non abbiamo i piccoli produttori che ci danno prodotto eccellenti, perdiamo l’essere intrinseco del nostro lavoro, perdiamo tutto».
Roberto e Alessandra della Campanara, credits: Gloria Soverini
Non solo. A far sopravvivere le osterie è il loro lato più umano, che non vuole e non deve essere trascurato. Come ben sottolinea Michele Valotti, patron de “La Madia”, a Brione, vicino Brescia, una trattoria dove le materie prime sono usate in maniera sperimentale e la cucina è tradizionale ma innovativa. «Per realtà come le nostre è importante che alla base ci sia il desiderio di socialità, dello stare insieme» afferma «Non poterlo svolgere in maniera completa, come in questo periodo, è penalizzante. Se ci guardiamo attorno, molte realtà della ristorazione stanno subendo una trasformazione, sono meno ingessate, più amichevoli, meno formali. Ci assomigliano forse di più nel format, ma la socialità rimane sempre e comunque il tratto distintivo della trattoria, che non può esistere che così».
Anche da Ciacco Putia Goumert, a Marsala, la pensano così «la trattoria ha una funzione sociale, ha un senso per chi la frequenta, rende le nostre città meno buie, le riempie di cibo, calore ed emozione. Non si può vivere di solo delivery o solo di asporto, ma bisogna tornare a “farcire” i piatti di sentimento», sostiene Francesco Alagna, uno dei titolare. «Vanno trovate nuove modalità» aggiunge Massimo Pulicati della taverna romana L’oste della Bonora, di cui è patron e chef «perché bisogna essere preparati per il prossimo covid. Dobbiamo renderci conto che dopo questa pandemia niente sarà più come prima. E il nostro compito oggi è dare un senso, un motivo a chi ci frequenta,a frequentarci ancore, un motivo che metta insieme, odori, gusti, luce e sentimento».
«Ed è proprio in nome di questa passione, del fattore umano, che non abbiamo voluto rinunciare alla nostra essenza» commenta Chiara Cauda, Direttore Editoriale di Slow Food «e non abbiamo abbandonato l’idea di concretizzare il progetto cardine, per non voltare le spalle a quello in cui crediamo da trent’anni. Pubblicare la guida è stato un “messaggio” forte e chiaro per non rinunciare all’essere osti, per continuare a raccontare questo mondo in modo nuovo e interessante».
«E per ribadire l’attualità della guida» conferma Eugenio Signoroni, editor di Slow Food «ci sono ben 119 novità all’interno del volume. È il nostro modo per dire con non ci fermiamo, è il nostro modo per dire avanti tutta». «Infatti a fianco della cucina, dei contenuti, dei prodotti» continua Marco Bolasco, curatore di Osterie d’Italia «abbiamo voluto sottolineare il valore umano delle persone e dell’accoglienza. Un fatto chiarissimo soprattutto da quando ce l’hanno tolto».
«Il nostro obiettivo» conclude Carlo Bogliotti, Amministratore Delegato di Slow Food Editore «è quello di rendere gli osti una comunità di persone, di lavoratori, di gente che è legata al territorio, che si vogliano fare da portavoce dei territori e nel rispetto dei territori, ma soprattutto degli individui». Ovviamente con il sorriso. Fonte: Linkiesta, Denise Frigerio, 23.12.2020