Il piatto è cinematografico. Stavolta non è una metafora bollita da passare tra i denti. Anche per quest’anno, infatti, tra i banchetti filmici più nutrienti della Berlinale ci sono proprio quelli che sollevano il cibo a protagonista. A imbandire il pasto visivo è un’intera sezione del festival, Kulinarisches Kino, che dopo sette edizioni, ormai ha trovato la ricette giuste per assumere una centralità nella programmazione. Location, le vestigia rinascimentali di uno dei palazzi berlinesi, il Martin Gropius, là dove la naturale prosecuzione di una proiezione a tema diventa una cena, preparata di volta in volta, da chef di fama internazionale invitati alla kermesse.
L’alimentazione, insomma, come fatto culturale, intesa nel suo più ampio spettro semantico, riflesso, strumento di dialogo e di sviluppo tra diversi popoli. Mappatura al cui centro ieri ha trovato collocazione l’Italia attraverso la sua insegna più innovativa. Slow Food, ovvero quella “creatura rivoluzionaria”, forgiata da Carlo Petrini e amici, capace nel giro degli ultimi anni di far da collettore per il recupero della storia e del senso delle tradizioni gastronomiche. Una “protezione” e un rilancio verso il futuro del mangiare e delle pratiche agricole e ambientali che ne stanno a monte, senza che questo si dissoci mai dall’esperienza del piacere. Un punto fermo che viene ben testimoniato dall’efficace documentario di Stefano Sardo, Slow Food Story, proiettato ieri a Berlino. La biografia del movimento della famosa chiocciola, qui rivisitato attraverso le effervescenti peripezie del suo inventore, Carlo Petrini, quel Carlin – così lo chiamano tutti – che inizia allegramente a tempestare di sue iniziative la cittadina di Bra, in Piemonte. Prima: la politica con falce e martello e fazzoletto rosso, il coinvolgimento popolare, le radio libere che trovano alleati contro i blocchi dei carabinieri grazie anche all’intervento di Dario Fo. Poi, la ripresa del rito contadino più scherzoso e godereccio delle Langhe, il Cantè j’euv (Cantar le uova), processione notturna di cascina in cascina per ricevere un cesto d’uova in cambio di un cantata tutti insieme che rende bene più di un trattato lo spirito su cui si è costituita una comunità-movimento. Là insomma dove c’è stata la miccia d’innesco che ha portato nelle svariate tappe successive e affini (dall’Arcigola al Gambero Rosso, fino alla nascita vera e propria di Slow Food) a una vera e propria mobilitazione internazionale. Una narrazione golosa che il documentario ripercorre attraverso il montaggio alternato di video amatoriali d’epoca, testimonianze, interviste, assieme ai bagni di folla del Salone del Gusto-Terra Madre (peraltro già al centro di un documentario di Ermanno Olmi, presentato al Kulinarisches Kino della Berlinale di quattro anni fa). Un modo per non scindere quel gancio che unisce godimento e senso di responsabilità, trasformando le cose del passato nel trampolino più innovativo per lanciarsi nelle avventure del futuro. Un gioco di sponda essenziale che trova declinazioni pratiche anche in un altro film italiano, proiettato proprio prima di quello di Stefano Sardo. S’intitola Couscous Island1, lo firmano Francesco Amato e Stefano Scarafia e ci traghetta sull’isola senegalese di Fadiouth. Uno spicchio di mondo che è diventato Presidio Slow Food, grazie all’impegno delle donne del luogo che, a ogni ora del giorno, si ritrovano per lavorare il miglio e ricavarne il couscous. Dalla semina nella terra dei baobab, ai margini del villaggio, al lavaggio nell’acqua di mare, alla cottura, fino ai tentativi di commercializzazione del prodotto. Anche qui, insomma, l’espressione di un ecosistema da proteggere e rilanciare assieme al suo spartito di sapori tradizionali. Tanto più che qui il documentario ci mostra come queste donne, nonostante le differenze di fede e di costume (alcune sono musulmane altre cattoliche) sappiano condividere luoghi di aggregazione e feste religiose. Un rispetto reciproco che non può non essere ingrediente integrante di quanto passi per i loro piatti. fonte: l’Unità- L.B. 13/02/2013
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