L’export di vino di qualità “sfuso”, da imbottigliare nel Paese di destinazione, torna di moda, e non solo per motivi economici, ma anche (e soprattutto) per le ricadute positive sull’ambiente e sulla qualità stessa del prodotto.
Se è facile capire come, eliminando il vetro e trasportando la stessa quantità di vino si riducono le emissioni di CO2 del 20%, è interessante notare che il vino sfuso, trasportato anche negli enormi flexitank (foto) risente di meno, per esempio, dei grandi sbalzi di temperatura che, talvolta, danneggiano l’imbottigliato accelerandone l’invecchiamento.
A dirlo è una ricerca dell’enologo Lee Winston, pubblicata da “The Drink Business” che, prendendo spunto dalla tendenza in atto nel Nuovissimo Mondo, in cui la quota di vino australiano partito sfuso per essere imbottigliato all’estero, nel 2010 è stata addirittura del 60%, ipotizza un vero e proprio ritorno al passato, almeno per i vini di fascia media, che subiscono la maggiore contrazione dei margini di guadagno. Ma se fino al 1948 persino il pregiatissimo Bordeaux di Château Margaux partiva sfuso – ricorda Winston – è impensabile che, tra mercato e disciplinari, i grandi vini possano percorrere una strada simile. WN