Ecco perché l’enogastronomia deve diventare chiave del turismo
Care lettrici, cari lettori,
Roma ha i suoi carciofi alla giudia, i rigatoni con la pajata, l’abbacchio a scottadito; il Sud Tirolo i canederli e lo strudel di mele; la Sardegna il maialino, i culurgiones e le seadas, la Puglia le orecchiette, il polpo, riso-patate e cozze, la Toscana la pappa al pomodoro e la mitica fiorentina. Sono solo alcune delle specialità di alcune regioni, qui citate a mo’ di esempio.
Ma ogni italiano sa che l’elenco è lunghissimo e che ogni angolo della Penisola ha un suo piccolo grande patrimonio gastronomico. Eppure non è così scontato per chi ci guarda – anche con ammirazione – dall’estero. Quali sono a livello internazionale le ricette o i prodotti davvero conosciuti e soprattutto un turista straniero è in grado di indicare da che città o area provengono? In che modo le regioni riescono a raccontare la loro tavola e restare impressi nei cuori dei turisti
A chiederselo è stato il team capitanato da Roberta Garibaldi – presidente dell’Associazione italiana turismo enogastronomico, docente di Tourism Management all’Università degli studi di Bergamo e vicepresidente della Commissione turismo dell’Ocse – che ha dato il via a uno studio specifico, i cui risultati saranno resi noti a maggio, ma che intanto ha fornito una interessante anticipazione, come racconta Lorenzo Cresci sul sito Ilgusto.it
Scopriamo così che lo scettro di regione più conosciuta/amata va all’Emilia-Romagna, in pole position tra le regioni italiane, per la quale i turisti sono in grado di associare le eccellenze alimentari al territorio. Sì, perché dall’estero, dove tutta l’Italia è una sorta di unicum indistinto (per quanto ambito) non è così semplice capire e distinguere l’identità e la specificità di ciascun luogo.
Secondo il Rapporto sul turismo enogastronomico italiano 2023, dunque, l’80% degli intervistati è stato in grado di indicare almeno un piatto tipico dell’Emilia-Romagna. Nel dettaglio, il più conosciuto si è rivelato il tortellino seguito dalla piadina.
In seconda posizione si piazza la Campania con il 77% degli interpellati che hanno ben collocato “il cosa nel dove”, principalmente grazie alla pizza e alla mozzarella di bufala campana.
Medaglia di bronzo per la Sicilia con il 76%: il prodotto più conosciuto è il celebre cannolo, seguito dagli arancini (o arancine, ma non è questa la sede per decidere il genere delle meravigliose palle fritte di riso condito).
In evidenza anche un’altra regione meridionale, la Calabria (spinta in alto dalla celebrità anche oltreoceano della ‘nduja), che conquista la quarta posizione a pari merito con il Lazio.
Il sesto posto appartiene alla Liguria, che invece esprime la ricetta con il punteggio più alto in assoluto tra quelli indicati dal campione di riferimento: oltre la metà del campione ha infatti ricollegato la cucina ligure al pesto.
Roberta Garibaldi alla Conferenza programmatica nazionale sul Turismo
Vini, carni e salumi, pasta e formaggi sono nell’ordine le categorie maggiormente citate. Il vino è il prodotto più identificativo per Veneto e Friuli-Venezia Giulia, oltre a figurare nella top 3 di numerose altre regioni italiane del Centro-Nord. I salumi primeggiano in Calabria. I formaggi invece in Valle d’Aosta, con fonduta e fontina tra i prodotti più identificativi. L’olio entra in classifica con la Puglia. Il Lazio è la regina della pasta, con ben tre specialità, carbonara, amatriciana, cacio e pepe E, aggiungerei io – ma l’indagine è stata svolta ben prima – anche con il pane della Ciociaria, dopo che Oprah Winfrey, la signora del giornalismo americano, forte di 22 milioni di follower sui social network, è stata a Fiuggi per una settimana di percorso detox ed è tornata a casa con una pagnotta di un forno artigianale di Torre Cajetani come souvenir e immediatamente quel pane è diventato celeberrimo in Usa.
Oltre il 70% del campione intervistato sa citare almeno un prodotto della Puglia e in testa ci sono le orecchiette; subito dopo viene la Lombardia, dove a dominare è il risotto.
Al nono posto la Toscana, prevalentemente ricollegata alla bistecca. Decima posizione per la Sardegna, con il pane carasau davanti a maialino e pecorino.
La seconda parte della classifica si apre con il Piemonte (al top la bagna cauda), che precede il Trentino-Alto Adige (canederli) e il Veneto (ricollegato al vino). L’Abruzzo segna lo spartiacque tra le regioni per le quali almeno la metà degli intervistati sa indicare un piatto tipico e nel caso della cucina abruzzese si rivelano decisivi gli arrosticini di pecora.
Scendendo sotto la soglia del 50% di riconoscibilità, si trovano nell’ordine: Friuli-Venezia Giulia (con il vino considerato prodotto-icona), Valle d’Aosta (domina la fonduta), Umbria (primo il tartufo), Marche (olive ascolane) e Basilicata (per quel capolavoro che è il peperone crusco). A chiudere la classifica è il Molise: solo due intervistati su dieci sono in grado di indicare un piatto tipico molisano (peccato perché a me solo a sentire il nome Molise viene l’acquolina in bocca per la panonta, le sagne, gli sciusci, le scescille, i cavatelli ecc.) e i più gettonati sono, a pari merito, la pasta, il caciocavallo e il vino.
Ora, bando ai campanilismi, visto che poi tutto è amato come “made in Italy”, forse vi chiederete che cosa ci importa se i turisti sono in grado di associare un cibo a un territorio. La risposta arriva direttamente da Roberta Garibaldi: “I prodotti e le specialità enogastronomiche sono potenti strumento di marketing territoriale in grado di promuovere una destinazione, oltre che essere un elemento chiave attorno cui costruire l’offerta turistica”.
Infatti dall’indagine emerge un quadro eterogeneo, con regioni che possono sfruttare questa riconoscibilità attraverso prodotti e piatti tipici, per accrescere il proprio appealing come meta enogastronomica. Ma lo studio è anche un importante spunto di riflessione per colmare alcuni difetti nella promozione all’estero: “Alcune aree – sottolinea Garibaldi – necessitano di un’azione volta ad accrescere la conoscenza nel grande pubblico di ciò che possono e sanno offrire; spesso si tratta di produzioni e specialità note al pubblico, ma non immediatamente identificabili con il territorio di origine”.
Il cibo – ricordano dalla Coldiretti – è diventato la principale voce del budget turistico con un impatto economico che è valutato attorno ai 30 miliardi di euro su base annua. La tavola si conferma come il valore aggiunto della vacanza in Italia, Paese che può contare sull’agricoltura più green d’Europa, su oltre 5mila specialità “pat” (prodotti agroalimentari tradizionali) censite dalle regioni, 316 specialità Dop/Igp e 415 vini Doc/Docg.
Insomma, far capire dove è possibile gustare al meglio quel prodotto, quel vino e quella ricetta per essere ancora più desiderabili come meta di viaggio per i foodie che scelgono le vacanze anche in base ai desideri del palato. Non a caso, come riporta Coldiretti, quasi un viaggiatore su tre (30%) in Italia ha visitato mercati tipici durante le vacanze estive. E oltre un terzo della spesa di italiani e stranieri in vacanza in Italia è stato destinato alla tavola per consumare pasti in ristoranti, pizzerie, trattorie o agriturismi, ma anche per cibo di strada o specialità enogastronomiche in mercati, feste e sagre di Paese. Certo, le amministrazioni devono darsi da fare. A meno di non avere un colpo di fortuna e ritrovarsi Oprah alle Terme. Fonte: laRepublica, IL GUSTO, Eleonora Cozzella, 19.04.2023