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Mar 27 2024

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CRISI CLIMATICA, IN ITALIA A RISCHIO IL 90% DELLA VITICOLTURA IN PIANURA E NELLE COSTE

La siccità colpisce le vigne 

L’allarme da uno studio dell’università di Bordeaux: se le temperature globali dovessero aumentare di oltre 2 gradi entro la fine del secolo, il 70% delle regioni del vino nel mondo non sarebbero più idonee alla coltivazione della vite

Il 90% delle attuali zone produttrici di vino in pianura e nelle zone costiere in Italia rischia di sparire, se le temperature globali dovessero aumentare di oltre 2 gradi entro la fine del secolo. E fino al 70% delle attuali regioni produttrici di vino nel mondo rischierebbe di non essere più idonea alla viticoltura. Questo a causa della siccità e delle frequenti ondate di calore legate al cambiamento climatico. L’allarme arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Reviews Earth & Environment da un gruppo di ricerca francese guidato da Cornelis van Leeuwen dell’Università di Bordeaux.

E non è un caso che negli ultimi anni la viticoltura si sia spostata sempre più in altitudine – vedi i vigneti piantati nel nostro Paese a 700, 800, 900 e mille metri – e sempre più a Nord come latitudini. Ne sono un esempio il Regno Unito, la Danimarca e i Paesi Scandinavi. Proprio sulle pagine del Gusto, nelle scorse settimane il geologo Mario Tozzi lanciava la provocazione che gli italiani aspettano di produrre Barolo a Stoccolma per rendersi conto del disastro climatico in atto.

Proprio su queste riflessioni si basa lo studio dei ricercatori di Bordeaux, una delle zone del vino più prestigiose del mondo. Attualmente le principali regioni vinicole si trovano alle medie latitudini, come in Italia, Spagna settentrionale, Francia meridionale e California, ma il riscaldamento globale sta rapidamente ridisegnando la geografia mondiale della produzione del vino condizionando la quantità e la qualità dell’uva prodotta. Per capire come la situazione potrebbe evolvere in futuro, i ricercatori hanno suddiviso ciascun continente e le relative aree di produzione vinicola in macroregioni definite da specifiche condizioni climatiche. In questo modo hanno stimato che, a seconda del riscaldamento globale, le regioni che rischiano di perdere l’idoneità alla viticoltura sono comprese tra il 49% e il 70%. Nello specifico, il 29% potrebbe sperimentare condizioni climatiche estreme, come ondate di caldo e siccità eccessive, che impediscono la produzione di vino di alta qualità. Ad esempio, con un aumento della temperatura superiore ai due gradi, il 90% delle tradizionali regioni vinicole costiere e di pianura di Spagna, Italia, Grecia e California meridionale potrebbe affrontare una forte perdita di idoneità entro la fine del secolo, a causa dell’eccessiva siccità e delle ondate di caldo più frequenti.

Allo stesso tempo, sempre per effetto del riscaldamento globale, dall’11% al 25% delle attuali regioni vinicole potrebbe sperimentare un aumento della produzione (come nello Stato di Washington e nella Francia settentrionale), mentre nuove aree idonee alla viticoltura potrebbero emergere a latitudini e altitudini più elevate (ad esempio nel Regno Unito meridionale). Tuttavia, l’entità di questi cambiamenti dipenderà fortemente da quanto aumenteranno le temperature.

Quali soluzioni possibili? In primis occore piena consapevolezza dell’urgenza del problema. In secondo luogo, certamente la cura della vigna, della biodiversità, della permeabilità dei terreni e della ricchezza di microrganismi nei suoli sono aspetti fondamentali su cui puntare. Un obiettivo chiaro e definito nel metodo di coltivazione biodinamica della vigna. Basta guardare il manifesto di Demeter, l’ente certificatore della biodinamica (l’organizzazione in Italia mette insieme oltre 1.000 le aziende) che tra i suoi sette principi cardine ingloba fertilità del suolo, piante sane, rispetto per la natura e

per gli animali, biodiversità come fonte di vita, responsabilità ecologica e sociale. Criteri che stanno entrando sempre di più in modo strutturale anche nella viticoltura cosiddetta convenzionale.

Certo è che la ricerca scientifica può dare un grosso aiuto in questo senso. Una chance viene dalla ricerca sui Piwi, incroci naturali tra vinifere europee e altre viti di origini americane e/o asiatiche. Questi vitigni (acronimo della parola tedesca “Pilzwiderstandsfähige”, viti resistenti ai funghi) possono difendersi dalle principali malattie della vite, come oidio e peronospora, legate agli eventi estremi del clima, grazie alla piccola percentuale di corredo genetico derivante dalla vite silvestre, che conferisce loro un’alta resistenza alle malattie funginee. Ciò consente una significativa riduzione dell’uso dei pesticidi, fattore molto importante nel saldo complessivo dell’impronta carbonica generata durante il processo di produzione. “Le varietà resistenti, attualmente circa lo 0,5% della viticoltura italiana, sono un fenomeno in decisa crescita – ha detto il professor Marco Stefanini, presidente di Piwi Italia, agronomo, enologo, docente a Trento nel corso di “Vitienologia Internazionale” e coordinatore dell’unità di Genetica e Miglioramento Genetico della Vite, intervenendo nei giorni scorsi in una conferenza organizzata da Vino sapiens  – sia in termini di produttori e vini in commercio, sia di regioni che ne autorizzano la coltivazione (ogni area delibera quali varietà ammettere nel registro Nazionale delle Varietà di Vite, tra quelle che ritiene più idonee per il proprio territorio, ndr)”.

È soprattutto nel Nord Italia, Veneto in testa, che moltissimi vignaioli (in primis il pioniere Nicola Blasi, enologo e viticoltore)) mostrano interesse per la materia, anche per via della maggiore esposizione alle malattie cui sono soggette le viti del Settentrione per il clima più umido. Sono oltre 200, ad oggi, le cantine che producono Piwi, per circa 350 etichette realizzate. Stefanini nel corso della lectio ha insistito sulla necessità di continuare la ricerca, che gradualmente renderà disponibili un ventaglio sempre più ampio di varietà resistenti, per poter offrire il vitigno adatto ad interpretare nella maniera migliore il territorio in cui viene piantato. La biodiversità viene dunque vista come fonte di innovazione, volta a conservare il racconto e le tradizioni locali. Il prof ha poi  evidenziato gli ostacoli di comunicazione incontrati anche verso gli addetti ai lavori e il grande pubblico. Un pregiudizio e un freno da superare, considerando l’urgenza di trovare una soluzione al tema della crisi climatica applicata alla viticoltura. Un’urgenza sotto gli occhi di tutti.   Fonte: Il Gusto, Lara Loreta, 27.03.2024

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