Storia di un “perpetuo” che voleva essere chiamato vino e del vignaiolo siciliano che ne ha segnato l’evoluzione
Cantina Marco De Bartoli ©Nicasio Ciaccio
Premessa
Il mio rapporto con l’azienda Marco de Bartoli inizia quando il vulcanico vigneron marsalese aveva già lasciato questo mondo. Ero arrivato a Pollenzo da un annetto e mi raggiunse un giovane produttore con lo sguardo penetrante che portava con sé un fascicolo di documenti: si trattava di Renato, figlio maggiore di Marco, determinato a risolvere una questione che molto aveva influito sugli ultimi anni del padre: il riconoscimento del vino perpetuo prodotto in azienda semplicemente come vino.
Renato De Bartoli
Sembra una banalità, ma per anni la legge e la burocrazia (soprattutto) furono alleate nel rendere questo riconoscimento difficile, fino a farlo apparire impossibile. Da più parti, senza un reale fondamento giuridico, si pretendeva che venisse definito “liquoroso” un vino che non aveva mai subito alcuna aggiunta di alcol, nessuna “fortificazione”.
Poi, finalmente, nel 2014, un ampio movimento di opinione e un intervento ministeriale hanno chiuso la vicenda riconoscendo al Vecchio Samperi l’agognata e perfettamente fondata natura di semplice, ancorché straordinario, vino bianco. Se volete capire di più di questa storia e di questi straordinari prodotti dell’estremo Occidente siciliano, queste righe possono offrirvene l’occasione.
Il territorio e il metodo storico
L’agro marsalese è un areale storicamente cruciale per la produzione del vino siciliano: prima che altre zone avessero il proprio sviluppo, qui si produceva quantitativamente l’ottanta per cento del vino siciliano destinato al commercio. Si trattava in primis del più celebre vino ossidativo italiano, alla base della fortuna di mercanti inglesi e siciliani dai nomi divenuti quasi mitici, già a fine Ottocento. Allora, a Marsala si producevano cento milioni di litri dell’omonimo vino, che usciva dalle cantine di poche decine di magazzini, nei quali confluiva, per il processo di invecchiamento e concia, il vino prodotto da migliaia di viticultori agricoli.
Questo primo dato è fondamentale. A differenza delle maisons in Champagne, storiche collettrici di uve, i vari Woodhouse, Florio, Pellegrino, Mirabella e compagnia, furono storicamente acquirenti di vino, prodotto nell’agro marsalese che poi, nelle loro cantine, veniva tramutato in Marsala attraverso la mistella o la concia e l’ossidazione.
La mistella è un mix (come suggerisce il nome) di mosto fresco mutizzato (che nel disciplinare prende il nome di sifone): l’alcol viene aggiunto al vino in fermentazione, per aumentarne il grado alcolico fino al diciotto per cento, che significa stabilità rispetto al rischio di rifermentazioni, mantenendo al prodotto finale anche gli aromi suadenti, fruttati e floreali, del mosto fresco.
La concia è l’aggiunta di alcol vinico ed eventualmente mosto cotto, per dare al Marsala il grado alcolico minimo del diciotto per cento e quel colore ambrato tipico del vino.
L’ossidazione è il processo perseguito attraverso la conservazione del vino in botti anche di dimensioni enormi, scolme e chiuse con tappi in legno, non in sughero o silicone, proprio per favorire lo scambio di ossigeno e accelerare i naturali processi ossidativo, la concentrazione del vino per evaporazione, l’aumento graduale dell’acidità volatile da acido acetico.
Come si può agevolmente comprendere, gli elementi alla base del metodo produttivo del Marsala (vino base, mistella o concia, ossidazione) sono reciprocamente influenti: tanto il vino base presenta un grado alcolico elevato, minore è la necessità di fortificarlo; maggiore è il tempo che si può attendere per l’ossidazione naturale e minore è la necessità di aggiungere mosto cotto per dare al vino i toni ambrati caratteristici.
Questo significa in soldoni che con un vino base abbastanza alcolico naturalmente e un lungo tempo perché l’ossidazione avvenga in maniera spontanea, si può ottenere un risultato che presenta una percentuale di alcol e una nota ossidativa analoghi a quelli che si ottengono in tempi più brevi e con l’aggiunta di alcol esogeno e mosto cotto, nel rispetto del disciplinare del Marsala. Questa possibilità, nel disciplinare del Marsala è contemplata dalla tipologia “vergine” che non consente aggiunte.
L’ingombro della tradizione
Quando Marco de Bartoli, padre di Renato, Sebastiano e Giuseppina, con la dote in terre e la fiducia della madre e del padre, inizia la propria avventura produttiva in proprio, alla fine degli anni Settanta, ha un’idea semplice quanto salda in mente. Se il risultato finale (un vino ossidativo complesso, stabile e adatto a invecchiare decenni) si può ottenere naturalmente, perché dovrei ricorrere ad addizioni di alcol o altri ingredienti?
Ne scaturisce un metodo produttivo che si può vedere in un’istantanea con Renato tra le grandi botti proprio del Vecchio Samperi: vecchio perché vino senza età, Samperi perché in quella contrada, delle ottanta presenti a Marsala, era nato.
Vecchio Samperi
Il Vecchio Samperi è un vino perpetuo, non un vino della flor come pure si legge talora, semplicemente perché con un vino base che supera sempre i sedici gradi alcolici, la flor non si sviluppa. Non si tratta nemmeno di un Solera perché al posto dei cinque livelli di botti che determinano l’esito enologico di Xérèz, qui ne incontriamo tre e di dimensioni, per ciascun carato, significativamente maggiori.
Anche per il Vecchio Samperi, ciò che si imbottiglia ogni anno viene solo dalle grandi botti alla base della catasta, che sono abitualmente scolme e non sono mai svuotate. Una volta prelevata la quantità da imbottigliare, dal carato immediatamente superiore si travasa una parte in quello inferiore e così si procede da quello più in alto a quello intermedio. Il vino nuovo, ogni anno, va esclusivamente nella botte più in alto, a reintegrare il prelievo a vantaggio della botte intermedia.
Perpetuo significa esattamente questo: non ha età o annata il vino che viene imbottigliato ogni anno: è un mix di molte annate diverse, decine di annate diverse, che grazie alle riserve acquistate da Marco negli anni Ottanta, probabilmente, superano il mezzo secolo. Il costante reintegro del prelievo con una quota di vino nuovo alla sommità garantisce non solo nutrimento per la flora batterica al lavoro, ma anche un grande equilibrio acido/alcolico al vino.
Naturalmente, il prezzo di tutto ciò è avere 1200 ettolitri di vino stoccati nel sistema appena descritto per poterne imbottigliare cinquanta ogni anno: qualcosa che si comprende solo se si conosce il modello produttivo dell’aceto balsamico tradizionale. Poter prelevare solo una parte della botticella al termine della batteria, implica uno stoccaggio enorme per una produzione risicata.
Odi et amo
Se il Vecchio Samperi è il simbolo enologico di Marco De Bartoli, non per questo il Marsala, che viene prodotto a partire dagli anni Ottanta per rispondere alla richiesta di ristoratori ed enotecari, oltre che alle sollecitazioni di amici produttori, è meno che straordinario.
Negli anni, Marco de Bartoli ha prodotto Marsala Vergine, come è ovvio, e ancora si trova in commercio qualche rara bottiglia dell’annata 1988, tuttavia oggi i Marsala prodotti e distribuiti sono tutti della tipologia Marsala Superiore Oro, che possono essere ottenuti senza aggiunta di mosto cotto, ma con la tecnica della mistella.
Le tre annate
Le tre annate assaggiate regalano un’escalation evolutiva molto interessante, perché se il Vigna La Miccia 2018 è ancora potentemente floreale e fruttato, quando si passa alla riserva 2009 e ancor di più alla riserva 1988 le note eteree prevalgono, sorrette da una acidità totale che vede il bilanciamento tra acidità tartarica e volatile spostarsi, a vantaggio di quest’ultima, per regalare al vino una “seconda freschezza” completamente diversa da quella del prodotto giovane, ma non meno coinvolgente.
E proprio sulla scia salina di questa acidità possiamo scoprire il segreto ampelografico dei vini aziendali.
Il segreto del Grillo
Visitando la cantina a fine ottobre, salta all’occhio un elemento notevole, nel panorama arso di Marsala. Le vigne di De Bartoli sono verdissime tutt’ora: non è caduta una foglia. Nei filari, per lo più a guyot bilaterale o alberello appoggiato, i grappoli delle femminelle sono già traslucidi, ma turgidi e invitanti.
Questo nonostante i portainnesti utilizzati siano 140R e SO4, non certo quelli che ti aspetteresti in un clima così secco: merito della roccia calcare che sotto lo strato coltivabile (poco profondo) funge da spugna, trattenendo l’umidità delle rare piogge a beneficio delle radici che letteralmente vi si appoggiano sopra: questo permette alla Marco de Bartoli di non irrigare.
L’uva regina, al centro della produzione marsalese, è il Grillo che ormai da oltre un decennio è largamente la più impiantata (una piccola percentuale di Perricone, localmente Pignatiello, sussiste per dare origine al fragrante Rosso di Marco e offrire una interessante base al metodo classico rosé).
But nothing compares to Grillo. Non stupisce che dalla Champagne qualcuno sia già venuto a dargli un’occhiata, visto che a questa latitudine, con queste temperature e questa carenza di acqua, un’uva capace di dare un metodo classico sontuoso e verticale (prodotto con metodo solo uva, ovvero aggiungendo mosto e non saccarosio per la rifermentazione) come il Terza Via, davvero non te lo aspetteresti.
Così come non si crede alle proprie papille quando si incontra il Grillo nella sua forma non ossidativa e senza bollicine: l’assaggio del Grappoli del Grillo (Sicilia Doc Grillo) del 2019 e del 2002 (!) conferma l’impressione di trovarsi davanti a un monumento ampelografico che davvero sarà preziosissimo in questi anni di cambiamento climatico.
E per concludere la prova della eccezionalità del vitigno, anche l’assaggio dell’Integer (Grillo vinificato con le bucce in anfora, non filtrato né solfitato) conferma l’ottimo giudizio sull’attitudine enologica, l’impronta territoriale segnata da mineralità e iodio ben percepibili all’assaggio, l’incredibile qualità dell’acidità, persistente, integrata ma saldissima nel garantire longevità.
Le nuove sfide
L’evoluzione della cantina marsalese passa oggi per la crescita del metodo classico (arrivato a superare le quarantamila bottiglie), mentre a Pantelleria la produzione di Bukkuram (e relativa riserva) offre agli amanti del Passito di Pantelleria (seconda Doc italiana, definita con legge del 1951) uno standard molto diverso da altri reperibili sul mercato, dominati da sentori predominanti di frutta disidratata e datteri in primo luogo. Nel Bukkuram la florealità dello zibibbo non è solo un ricorso, la spina acida, manco a dirlo, si fa sentire, una nota vegetale rende più snello il sorso di quanto la tipologia farebbe pensare.
La storia della bottiglia del Bukkuram così simile ma anche così diversa da quella del Vecchio Samperi, merita una nota a parte e per questo c’è un piccolo video realizzato proprio con Renato.
L’ultima arrivata, in ordine di tempo, è la sfida etnea, che sul mercato arriva come DBE. Siamo appena agli inizi, ma non ci sono dubbi che anche da Idda i fratelli De Bartoli, nel segno di Marco, sapranno trarre grandi vini e soprattutto nuove fonti di ispirazione per chiunque ami il vino. Fonte: Linkiesta, Cultura, Michele Antonio Fino