Lo chef Marcus Samuelsson spiega che quando condividiamo delle ricette con i nostri cari o con i nostri amici è come se dicessimo: «Questo sono io»
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Agli chef che iniziano a lavorare in una delle mie cucine faccio sempre una semplice domanda: «Che cosa cucini a casa?». Le risposte rivelano molte cose. Fariyal Abdullahi, l’executive chef del mio nuovo ristorante a Manhattan, Hav & Mar, mi ha detto che il suo comfort food preferito è il tibs. Si tratta di un piatto tradizionale etiope a base di carne saltata con verdure, che è molto apprezzato in tutte le regioni del Paese. Lei lo prepara in un modo particolare, che è tipico solo della sua tribù, che è composta da oltre 250.000 persone: la ricetta prevede di marinare la carne di manzo per una notte con una miscela aromatica di erbe, verdure e succo di limone. Quando Fariyal era bambina, sua madre lo serviva sull’injera o con del riso. E oggi lei prepara il tibs ogni volta che sente la nostalgia di casa. Ora quel piatto viene servito anche al ristorante, abbinato a un grits cremoso, per un brunch robusto.
La domanda su che cosa cuciniamo a casa invita al dialogo e diventa subito personale. Il cibo che prepariamo per noi stessi e per i nostri cari riflette le nostre origini e quello a cui ci rivolgiamo per trovare conforto. Mostra amore e rispetto. Ed è un po’ come aver imparato una lingua. Per quanto mi riguarda, io quella lingua l’ho imparata nella cucina di mia nonna Helga, mentre davamo forma alle polpette con le mani. Dal momento che ero cresciuto a Göteborg, in Svezia, non sapevo che gli svedesi fossero famosi per le loro polpette. Sapevo solo che quelle polpette erano deliziose e che erano esattamente ciò che un bambino voleva dopo la scuola.
Spesso l’apprendimento di una cultura, di una storia e di un retaggio di tradizioni avviene a tavola, nel momento in cui ci si riunisce in famiglia, si impara come mangiare correttamente, si ascoltano le storie degli anziani e si approfondisce la conoscenza dei cibi che hanno nutrito la famiglia e la comunità per generazioni. Penso a queste cose quando taglio un avocado per la mia bambina, Grace, o quando, la domenica mattina, insegno a mio figlio Zion a fare i pancake con la farina di teff. È questo che ricorderanno? È così che si ricorderanno di me, di un padre nato in una capanna in Etiopia e cresciuto in Svezia? È così che ricorderanno di essere figli di immigrati? Perché questo è il significato della cultura infusa nel nostro cibo: è ricca, stratificata e tutt’altro che monolitica.
Pensate ai cuochi di colore e all’anima del cibo americano. Lowcountry, Southern, Creole, barbecue: sono tutte tradizioni alimentari degli Stati Uniti. Ma che cosa ci viene insegnato su di esse? Gran parte della storia iniziale del black food non è stata documentata. Questo patrimonio ha dovuto sopravvivere solo attraverso la tradizione orale, che è stata tramandata di generazione in generazione. Condividere una ricetta è un’esperienza unica che implica un rapporto personale. L’essere invitati nella cucina di qualcuno per imparare a preparare un piatto porta inevitabilmente a una conversazione su chi gliel’ha insegnato o su come una spezia specifica sia finita nell’armadietto della cucina o sul perché si usi una pentola particolare per preparare una particolare zuppa. E io amo questa cosa.
Ho avuto la fortuna di viaggiare per il mondo a caccia di sapori, girovagando per i mercati, cenando in ristoranti di lusso e mangiando nei food truck a gestione familiare. Ovunque io vada, la mia formazione sulla cultura locale inizia dalla cucina: i piatti che sono diventati dei tesori nazionali, come il riso jollof in Senegal o la paella in Spagna; gli ingredienti che non vengono utilizzati in osservanza di qualche regola religiosa; l’orgoglio che nasce dalla celebrazione di tradizioni culinarie vitali. Queste tradizioni sono cariche di molti significati e – dal banchetto che serviamo a un matrimonio, al piatto che prepariamo per piangere la perdita di una persona cara, fino al cibo che prepariamo per un bambino che ha appena imparato a masticare – riflettono intrinsecamente il nostro carattere.
Tutto questo mi fa pensare a una donna che mi ispira più di chiunque altro: la grande chef creola Leah Chase. E mi viene in mente il modo in cui il suo piatto iconico, il gumbo, rappresenti la sua notevole eredità, non soltanto perché lo ha preparato per generazioni di clienti (com’è noto, lo ha servito a Barack Obama durante la sua prima campagna presidenziale), ma anche perché lei sapeva quanto la costruzione di una comunità sia una cosa potente. Perché lei, che era coraggiosa e instancabile, ha fatto proprio questo nel suo storico ristorante di New Orleans, il Dooky Chase’s: quel locale era diventato un luogo di incontro per il leader dei movimenti per i diritti civili. E, decenni dopo, quando l’uragano Katrina travolse la città, Leah Chase ricostruì il ristorante con grande impegno. «In quella sala da pranzo abbiamo cambiato la rotta dell’America davanti a una ciotola di gumbo e a un po’ di pollo fritto», disse una volta.
Quando la pandemia ha paralizzato il nostro settore, rendendone caotiche le prospettive, io ho pensato incessantemente a lei. E mi sono ispirato alla sua eredità, trovando incentivi nel modo in cui il suo ristorante ha contribuito a formare il movimento per i diritti civili e a sostenere la comunità. È questo che mi ha fatto andare avanti durante la pandemia. Ed è per questo che l’anno scorso è stato profondamente significativo aprire Hav & Mar, che è collocato nel cuore della vibrante comunità artistica del centro di Manhattan. Lavorando con due grandi come l’artista Derrick Adams e la curatrice Thelma Golden, ci siamo proposti di creare uno spazio a Chelsea che onorasse lo spirito della parola “ristorante”, che ha le sue radici nell’idea di ristabilire e rinnovare: un luogo di nutrimento, comunità ed espressione.
Per me è questo lo spirito del vero cibo americano, che è più democratico che mai. Lo si vede e lo si assaggia nei ristoranti di ogni parte degli Stati Uniti, passando dall’approccio fresco agli ingredienti di stagione di Mashama Bailey a Savannah, al saporito southern food di Erick Williams a Chicago, fino all’inventivo brunch nello stile delle isole proposto alle Hawaii da Lee Anne Wong. Ereditiamo ciò che cuciniamo e lo facciamo nostro, mentre ci adattiamo ai luoghi in cui ci porta la vita. Amo il fatto che i cibi che provengono dalle nostre cucine esprimano profondamente la nostra identità e come la condivisione di questi piatti – con i nostri cari o con dei nuovi amici – sia il nostro modo di dire: «Questo sono io». È intorno alla tavola, attraverso il cibo, che entriamo in connessione gli uni con gli altri. Il cibo è la nostra eredità. È la nostra storia ed è il nostro futuro. Fonte: Linkiesta Magazine Cultura, Marcus Samuelson, 16.08.2023
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