Il cibo c’è, eppure 800 milioni di individui ogni anno soffrono la fame.
Bamako, Mali: una donna raccoglie scarti di cibo (afp)
La strada è tanto chiara quanto rivoluzionaria: smettere di inseguire la produttività e cominciare a difendere la produzione alimentare
Undici anni fa il mondo tagliava il traguardo dei setti miliardi di abitanti, oggi siamo arrivati a otto. E così, presto o tardi, si tornerà a discutere della presunta necessità di aumentare la produzione alimentare per poter sfamare l’intera popolazione della Terra.
Di cibo, in verità, ce n’è in abbondanza: già oggi, quasi un terzo di quello che viene prodotto a livello globale va sprecato, buttato via senza essere stato consumato: dal campo alla pattumiera, potremmo dire.
A volte scartato semplicemente perché in eccesso rispetto alle necessità; altre volte perché mal conservato lungo le rotte infinite sulle quali viaggia da una parte all’altra del mondo; spesso sprecato da noi consumatori dei Paesi ricchi, che non diamo valore al cibo.
Oggi se ne produce per 12 miliardi di persone. Il cibo c’è, eppure 800 milioni di persone ogni anno soffrono la fame. Secondo la Fao, nel 2030 la percentuale di persone che ne patiranno sarà la stessa del 2015: l’8%. Significa che, nonostante i discorsi, le tante parole pronunciate e le promesse, in quindici anni non sarà cambiato nulla.
Un altro dato penso debba far riflettere: il 13% degli adulti che vivono nel mondo è obeso. Da una parte c’è chi muore di fame, dall’altra chi convive con malattie dovute alla sovralimentazione e alla cattiva alimentazione. La dolorosa constatazione è che si soffre di malnutrizione non per scarsità di cibo, ma per povertà.
Credo che il fallimento delle attuali politiche alimentari sia sotto gli occhi di tutti: il cibo, oggi, non è per tutti; non è pulito, considerato che un terzo delle emissioni di gas serra è legato alla filiera alimentare; e spesso non è nemmeno particolarmente buono.
Ma io sono convinto che otto miliardi di persone possano vivere e alimentarsi in modo sostenibile. Dico sostenibile, intendendo di questo aggettivo il significato più autentico: utilizzando cioè le risorse in modo che possano continuare a essere disponibili in futuro.
Alimentarsi in modo sostenibile (meglio in modo duraturo) significa allora far sì che ciò che noi sfruttiamo oggi possa continuare a essere sfruttato dai nostri figli, a partire dal suolo che è l’origine di tutto il cibo che mangiamo. Per essere sostenibile, ad esempio, l’agricoltura deve abbandonare i pesticidi: veleni che uccidono la fertilità dei terreni, oltre a far male alla salute.
Nel mondo esistono tante realtà virtuose: pensate che oltre la metà della popolazione viene alimentata da 500 milioni di produttori di piccola scala, imprese familiari oppure piccole cooperative.
Un tessuto enormemente prezioso, da salvaguardare e tutelare, da difendere e promuovere, da sostenere, ma che invece si trova sempre più spesso strozzato in un sistema che privilegia le multinazionali, l’agroindustria, i big della chimica applicata al cibo, chi possiede i brevetti e i semi ibridi, gli stessi che incassano una grande fetta dei fondi stanziati a livello internazionale.
Per sfamare otto miliardi di persone la strada è tanto chiara quanto rivoluzionaria: smettere di inseguire la produttività e cominciare a difendere la produzione alimentare.
Il cibo dev’essere un diritto, non un bene da scambiare in Borsa, non una commodity grazie alla quale arricchirsi a discapito di qualcuno, della salute del pianeta e del futuro stesso dell’umanità.
Fonte: laRepubblica, Carlo Petrini, 14.011.2022