A WineNews la visione di quattro grandi architetti: Marco Casamonti, Valentina Moretti, Luca Zaniboni e Stefano Lambardi
Dal mondo dell’immobiliare arrivano le prime analisi sull’impatto che la pandemia di Covid-19 avrà sulle compravendite e sulle necessità degli italiani, che si trovano da settimane a vivere la propria casa, e quindi i propri spazi, in un modo del tutto nuovo. Da una parte la convivenza, dall’altra le necessità dello smart working, mettono a nudo tutti i limiti di decenni che hanno portato a prediligere centralità e piccoli spazi, a discapito dei sobborghi delle città e, soprattutto, delle campagne. Una dinamica che possiamo calare anche nel mondo della ristorazione: come emerge dal racconto di tanti chef ed imprenditori del settore, adeguarsi alle nuove norme vorrà dire rapportarsi in modo nuovo e diverso allo spazio ed ai suoi limiti, per garantire la distanza sociale e tornare a godere di un ambiente adeguato al piacere della tavola. Soprattutto nelle città, a partire dalla più colpita, Milano, che, con un bando del Comune, ha chiamato a raccolta creativi e designer per condividere idee e progetti che permettano a bar, ristoranti ed uffici di ripartire ripensando, appunto, gli spazi.
Da un punto di vista architettonico ed urbanistico, tutto questo, cosa comporta? Possiamo immaginare in un cambiamento di lungo respiro, che porti ad un decentramento delle attività di ristorazione, e quindi alla necessità di ridisegnare e ripensare casolari, poderi e fondi commerciali con giardino dei piccoli paesi, fino a cambiare il volto stesso, tra ristrutturazioni e innovazioni tecnologiche, dei borghi e delle campagne? Riconnettendoci al nostro mondo, si può immaginare, anche da un punto di vista architettonico, ad una “migrazione” della ristorazione nelle cantine, che in quanto a spazi, spesso e volentieri, ne hanno in abbondanza, specie con le difficoltà che, prevedibilmente, patirà l’enoturismo? Ne abbiamo parlato con tre architetti, ognuno con il proprio punto di vista: Marco Casamonti, dello Studio Archea Associati, firma della cantina della Marchesi Antinori nel Chianti Classico, Valentina Moretti, vicepresidente esecutiva della Moretti Costruzioni e direttrice creativa di More, Luca Zaniboni dello Studio Dordoni Architetti, che ha curato – tra i tanti progetti – anche la ristrutturazione del Caffè Cavour di Bergamo della Famiglia Cerea, e Stefano Lambardi, docente alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, ma anche progettista della cantina di Case Basse (Gianfranco Soldera), una delle più prestigiosa griffe di Montalcino e del mondo.
Argomento sconfinato, da trattare con cura e contestualizzandolo con precisione, partendo dall’inizio, ossia, dalla pandemia, secondo Marco Casamonti (qui, integralmente, il suo punto di vista raccontato a WineNews: https://winenews.it/it/casamonti-ripensare-gli-spazi-dalla-casa-al-ristorante-alla-cantina-e-rendere-smart-i-borghi_415990/), dello Studio Archea Associati, tra gli architetti più importanti del Belpaese, e firma dell’avveniristica cantina della Marchesi Antinori nel Chianti Classico, il punto di partenza è il centro della vita di ognuno, le “case dove abitiamo sono l’inizio di un processo di ripensamento del nostro modo di abitare che probabilmente ha smarrito nel tempo il significato, per lo spazio domestico, di rifugio, di luogo protetto, mentre la casa deve continuare a rappresentare il luogo del primo soccorso. Risulta del tutto evidente che esista a livello generalizzato un problema di spazio connesso alla contrazione dimensionale che ha provocato l’espulsione di molte attività quotidiane dal luogo domestico. Viceversa, di fronte all’emergenza Covid-19, alle persone è stato chiesto di non andare al Pronto Soccorso, di restare a casa, purtroppo in balia degli eventi e spesso senza assistenza. Evidentemente se le nostre abitazioni fossero state realmente connesse con la medicina del territorio attraverso servizi di assistenza in remoto con tecnologie già oggi disponibili sarebbe stato possibile sostenere molte famiglie e pazienti che si sono sentiti completamente abbandonati, fare diagnosi o dialogare con il proprio medico o con l’ospedale senza uscire di casa a tutela anche dei medici che hanno perso la vita pur di aiutare a domicilio le tante persone infettate. Ma la casa – continua Casamonti – oltre al tema delle infrastrutture tecnologiche, presenta altre criticità che sono comuni a molte altre tipologie: dobbiamo pensare che la nostra vita è un continuo movimento tra interno ed esterno, tra un dentro e un fuori, per cui ogni luogo abitabile necessita di uno spazio con funzione di filtro. In tutti gli edifici dovremo dividere una “dirty zone” da una “clean zone”: entrando, dovremo trovare un ingresso dove toglierci il cappotto e le scarpe, lavarci le mani, e da lì entrare nella “clean zone”. In casa è facile da fare, bastano pochi metri quadrati, ed a maggior ragione è possibile farlo in un ufficio e probabilmente anche in un ristorante o un luogo di svago”.
L’ostacolo principale è costituito dalla logica del profitto, poiché “per tagliare qualsiasi superficie ritenuta accessoria il mercato offre appartamenti con l’ingresso direttamente sulla cucina-soggiorno, il che è antigienico a prescindere dal Covid-19. Tutto ciò – aggiunge l’architetto – vale anche per molte altre attività lavorative tra le quali la ristorazione: in una sala di dimensioni definite, se non vi sono regole condivise, ogni operatore tenderà, per aumentare il profitto, al massimo sfruttamento dello spazio e dei posti a sedere. Probabilmente occorrerà orientarsi, per qualsiasi edificio, non già alla massima utilizzazione delle superfici disponibili, ma verso la possibilità del miglior sfruttamento dello spazio in relazione alla qualità della vita e del comfort delle persone”.
Superata la questione della rendita superficiale, l’attenzione degli operatori deve spostarsi sul concetto di salute quindi sulla “possibilità di igienizzare lo spazio abitabile. Abbiamo oggi, ed è bene ricordarlo, tutte le tecnologie per sanificare gli ambienti in modo semplice, basta applicarle. Nelle sale operatorie vengono usate da anni lampade ultraviolette che uccidono i batteri e sanificano gli ambienti. Forse, con poca spesa, potrebbe rivelarsi la soluzione giusta per la sanificazione della casa, dell’ufficio e del ristorante: una volta chiuso si accendono le lampade e la mattina dopo l’ambiente è sanificato, non è difficile, né costoso”.
Un’altra grande riflessione riguarda i sistemi di aria condizionata e più in generale i quelli di climatizzazione. “Se continuiamo a riscaldare e raffreddare gli ambienti riciclando l’aria interna con impianti centralizzati – sottolinea Casamonti – evidentemente contribuiamo involontariamente alla circolazione di eventuali virus o agenti infettanti. Perché non scegliamo, negli ospedali così come negli uffici, e più in generale in tutti i luoghi chiusi dove sia previsto lo svolgimento di attività collettive, sistemi radianti, che non movimentano l’aria, mentre per i ricambi d’aria naturale non ci affidiamo il più possibile alle vecchie finestre? Tutto questo è ampiamente fattibile, ma se non ci sono regole ad imporlo non lo farà nessuno”.
Occorre che qualcuno se ne occupi, ricorda Marco Casamonti, “a partire da noi architetti. Non dico che dobbiamo smettere di costruire ma dobbiamo sentire fortissima la responsabilità che ciò comporta in termini di uso del suolo. Con la cantina di Antinori nel Chianti Classico abbiamo costruito oltre 50.000 metri quadrati di edificio, ricreando altrettanta superficie di vigneti sui tetti. Le cantine, in questo senso, costituiscono un esempio virtuoso di uso delle risorse poiché storicamente ottenevano le temperature di maturazione del vino in maniera assolutamente naturale attraverso lo sfruttamento della temperatura della terra, del sottosuolo. Il vino e il suo consumo pongono inoltre alla nostra attenzione due termini fondamentali per la vita contemporanea: rispetto e moderazione. Se il vino è bevuto con rispetto e moderazione fa bene all’organismo, c’è chi sostiene che un bicchiere al giorno aiuti a prevenire le malattie cardiovascolari. Ma se ne abusiamo, otteniamo l’effetto contrario e, ciò che era buono, diventa dannoso. Il vino da questo punto di vista rappresenta un esempio: può essere un piacere ma deve essere consumato con saggezza”.
Un altro argomento sul tavolo connesso con i termini della discussione in corso riguarda la deurbanizzazione, “una opportunità verso cui dobbiamo tendere – dice Casamonti – ma se ci concentriamo tutti nelle città è perché nelle campagne e nei borghi c’è ancora un gap gigantesco in termini di connettività. È difficile lavorare o studiare da casa vivendo sull’Appennino. Il tema è: infrastrutturazione del territorio. Finché non sarà conclusa tale attività, a livello tecnologico, questi luoghi meravigliosi dell’Italia, che sono la nostra spina dorsale, si spopoleranno sempre di più. Solo in questi termini si può pensare ad un decentramento, e consentire a tutti di sfruttare l’opportunità del telelavoro, del controllo della salute a distanza (telemedicina). Dobbiamo tornare a rendere attrattivi i centri minori, a partire dai territori montani. Il decentramento è auspicabile, ma probabilmente occorrono forti politiche di incentivazioni quali la defiscalizzazione del costo del lavoro per le aziende che consentano lo smart working. Tale propensione verso i centri minori può favorire anche il settore della ristorazione di qualità, anche se in questa fase di estrema sofferenza per il settore occorrerebbe incentivare un uso pubblico delle strade, oggi “privatizzate” dalla presenza ingombrante e inquinante delle automobili. Le strade e le piazze non dovrebbero essere parcheggi, o linee di scorrimento per il traffico, piuttosto luoghi di incontro tra le persone, spazi per la ristorazione, e il movimento libero delle persone. Dobbiamo cercare di rendere civile questo mondo – conclude l’architetto dello Studio Archea Associati – fare in modo che la gente usi meno possibile l’automobile, meno che mai i combustibili fossili”.
“Il primo aspetto su cui stanno lavorando gli chef – racconta Valentina Moretti – è come garantire la sicurezza di ciò che viene portato in tavola, e poi c’è da capire come gestire, ed in certi casi ampliare, gli spazi, affinché i clienti possano essere accolti nel modo giusto. Un utilizzo intelligente delle luci, in questo senso, potrebbe aiutarci, un po’ come in certi percorsi museali, a mantenere le distanze. Aspetto che di certo rivoluzionerà le visite in cantina ed i percorsi degustativi, oltre che l’esperienza della ristorazione, dove nessuno prende in considerazione di separare i tavoli ed i commensali con un vetro. C’è un aspetto che riguarda l’individuo, che dovrà in qualche modo auto certificarsi, e questo ha molto a che fare con la fiducia reciproca, un tema nuovo ed importante, perché non possiamo diventare troppo rigidi. Dall’altra parte, gli ambienti della ristorazione, delle cantine e degli alberghi saranno sempre più familiari: per fare un esempio, all’Albereta stiamo pensando di avere più appartamenti per le famiglie ed a moltiplicare le aree comuni. E questo succederà anche nelle aziende, per continuare ad incontrarsi, ma non troppe persone alla volta”.
Un cambiamento della socialità, che passa per un vivere diverso degli spazi, che secondo Valentina Moretti, “non è necessariamente negativo. Veniamo da un periodo in cui eravamo tutti molto distratti, credo che ritorneremo a prestare maggiore attenzione a ciò che ci circonda, a ciò che diciamo, riattivando i cinque sensi. Torneremo ad osservare, a farci domande, ad ascoltare, ad apprezzare il silenzio ed ascoltare davvero le persone con cui parliamo. È una conseguenza positiva, e l’architettura, che ha lo scopo di accompagnare la vita dell’edificio e farlo vivere – pensiamo alle cantine ed ai percorsi di visita – e questo è un argomento interessante. Bisognerà trovare un equilibrio, non si può fare tutto online, l’aspetto fisico ed il bisogno di andare in una cantina non passeranno. Pensando ad esempio a piccoli gruppi, di 2-4 persone, con cui parlarsi con maggiore attenzione: se aumenta la sensibilità, l’architettura ne giova”.
Tornando alla ristorazione, il problema dello spazio, specie nei centri storici, è difficile da risolvere. “Noi architetti, in questo momento, abbiamo come obiettivo quello di ampliare gli spazi, ma nei locali dei centri cittadini o dei borghi gli chef devono prepararsi a vedere di molto ridotti i posti a sedere. Ma potrebbe anche essere un bene: ospitando meno persone lo chef può costruire un dialogo ed offrire un’esperienza unica. Ci saranno più momenti per andare a mangiare fuori nell’arco della giornata, ma sarebbe necessario un accordo tra gli chef per un piano condiviso, e seguire tutti le stesse linee guida, ma differenziando l’offerta e rendendola il più chiara possibile, a partire proprio dalla capienza”. Altro argomento centrale, è quello dello spostarsi fuori città, “come sostengo da anni, seguendo in questo le teorie dei progettisti di Superstudio e dell’architetto greco Elias Zenghelis, che negli anni Settanta avevano progettato uno sviluppo utopico delle città. Avevano notato che nelle città a sviluppo centrale, come Milano, che cresce a cerchi concentrici, ci sarebbe stato un problema, perché lo sviluppo così grava tutto sul centro, che rimane nella stessa posizione, e più me ne allontano e più comunque avrò necessità di andarci. L’alternativa sono le città lineari, come Londra, che non ha un centro, ma tanti centri, che sono i suoi quartieri, ognuno con le proprie peculiarità ed ognuno a suo modo un centro città. In quest’ottica, lo studio Zenghelis aveva immaginato le città-edificio, che hanno l’obiettivo di dare tutti i servizi necessari, per evitare così gli spostamenti e l’inquinamento: la città non si sparpaglia in brutte periferie, ma diventa una serie di centri separati da loro dalla natura. Uscire dalle città, ed andare nei borghi, per me, è una scelta naturale: per lavorare posso andare in città con i mezzi pubblici, ma il valore di vivere in spazi aperti, dove mangiare ciò che si coltiva, ha un valore enorme. Specie in questo periodo. Da anni, con More, promuoviamo l’abitare nel verde, e quindi vivere in un ambiente ampio, di luce naturale, ad impatto ecologico diverso. Credo molto nel vivere fuori dalla città, specie per le famiglie. I borghi, purtroppo, molto spesso hanno cercato di diventare piccole città, invece che trovare una propria identità: il borgo non avrà mai quello che ha una città, e viceversa”.
In questo senso, la ristorazione e la gastronomia italiana, anche di altissimo livello, sono legate a doppio filo alle campagne, più che alle città. “Pensiamo a Gualtiero Marchesi: l’Albereta era la sua casa, accanto a Bellavista, dove potremmo in effetti fare ristorazione, a patto che si differenzi molto da Albereta, che ha già tre cucine diverse. Terra Moretti, in questo senso, è un piccolo mondo aperto al mondo, capace di catalizzare l’attenzione del turista facendo crescere tutto il territorio circostante e creando un circolo virtuoso di cui beneficiano tutti, sul modello della Champagne. Un ristorante o un’azienda di un certo livello possono aumentare la qualità della vita di un’intera comunità. La mia ossessione – continua Valentina Moretti – è da sempre quella di salvare il paesaggio attraverso l’architettura, per questo ho scelto la Franciacorta. L’architettura oggi ha una grande responsabilità, prima di tutto nel valorizzare ciò che abbiamo già ed usarlo al meglio, e poi costruire ciò che serve davvero e che può migliorare il paesaggio. E questo vale anche nelle realtà agricole, dove l’architetto può portare un contributo enorme, specie se pensiamo alla paesaggistica: con l’architetto parigino Michel Desvigne avevo fatto un progetto sulla Franciacorta, programmando una zona destinata ai capannoni e poi una serie di percorsi per scoprire i paesaggi del vino, con pochissime strade per le automobili e tanti per le biciclette. Progetti che dovremmo iniziare a fare, anche se convincere le amministrazioni locali non è affatto semplice: troppo spesso si è passati da un’urbanizzazione sconsiderata ad uno stop a qualsiasi progetto ed innovazione, che non ha senso”.
Tornando alla dimensione della cantina, ci sono esempi “come Sella & Mosca, che è un borgo: a livello di spazi è un paesino, con una sua chiesa, corpi di edifici diversi che possono ospitare negozi e ristoranti, ma anche scuole, bed & breakfast o albergo di lusso, ma anche un maneggio per girare a cavallo tra i vigneti. Tutto questo si può fare, a due passi da Alghero: le cantine possono diventare dei veri borghi – conclude Valentina Moretti – spostando così il flusso delle persone fuori dai centri urbani e sensibilizzando al vino ed alla qualità non solo gli intenditori, ma anche chi cerca altro ed aumentandone la cultura enoica, puntando sull’incontro con altri mondi, dall’arte alla musica”.
Più scettico, rispetto ai cambiamenti che questa crisi potrebbe portare, Luca Zaniboni, architetto che con lo Studio Dordoni si occupa di ripensare gli interni di case, uffici, shop, ristoranti. “Sento molti ragionamenti su come sarà l’interior design dopo questa crisi, ma secondo me è un gatto che si morde la coda. I costi da sostenere sarebbero troppo alti, specie nei centri città, dove l’offerta è di piccole dimensioni: non si può pensare di redistribuire gli spazi, ad esempio reintroducendo il corridoio e superando l’open space, in appartamenti di 80 metri quadri, dove gli spazi comuni, per ovvi motivi, hanno tolgo spazio alle camere ed in certo modo sostituito lo studio e la biblioteca delle case di 200 metri quadri. Per non parlare del rapporto con l’esterno: a tutti piacerebbe un terrazzo di 150 metri quadri, ma è un intento non perseguibile. Lo spazio – sottolinea Zaniboni – è un limite impossibile da superare, e lo smart working cui siamo costretti in queste settimane ce lo conferma: la sovrapposizione con gli altri membri della famiglia è spesso inevitabile, perché le case di oggi sono costruite seguendo altre priorità. È probabile che ci sarà un adattamento, ma non può funzionare per tutti, specie perché in tanti lavori il rapporto interpersonale è fondamentale. Proprio per la funzione che hanno i locali, di aggregatore sociale in cui incontrarsi, specie a Milano, la vicinanza è importante, è un’abitudine, ed è anche quello il bello: la trattoria con l’oste tra i tavoli, il bancone di un Caffè come il Cavour della Famiglia Cerea, sono luoghi in cui una grande affluenza incontra piccoli spazi. Non è un problema risolvibile: se ho uno spazio limitato in un edificio storico, non modificabile, non posso fare altro che, nel caso di un ristorante, ridurre di molto i coperti, diventando economicamente insostenibile, perché le spese sono più o meno le stesse. È un tema complesso, mi auguro che questo sia un passaggio provvisorio, una tempesta da superare per tornare a riva, alle abitudini di prima. Nel futuro – dice l’architetto di Milano – credo che a livello di ristorazione non ci saranno grandi cambiamenti una volta finita questa emergenza: è impensabile che la nostra cultura dello stare insieme ne possa uscire stravolta. È vero che abbiamo riscoperto il piacere di stare a casa, ma sono convinto che quando ripartirà tutto ci accorgeremo che sarà cambiato poco rispetto a prima, anche nel rapporto con la natura”.
A questo proposito, Zaniboni considera “fondamentale, parlando di vino e cibo, la conoscenza delle filiere, il concetto di rispetto delle aziende, la ricerca anche in città di prodotti della campagna portati direttamente dai contadini. Adesso che si può tornare ad uscire la gente ha voglia di stare all’aria aperta, ma non credo che avrà voglia di tornare al ristorante almeno per ora. Ma quando andremo in vacanza, credo che cercheremo di ricreare un ambiente domestico piuttosto che optare per un villaggio vacanze, almeno per questa estate, e ne beneficeranno le campagne. I grandi locali ad alta ricettività, su tutti le discoteche, non potranno riaprire, e certe abitudini cambieranno, magari scovando la piccola taverna in campagna, l’agriturismo. Con la riapertura (la cosiddetta “Fase 2”, ndr) bisognerà capire come garantire il distanziamento fisico, che non vuol dire distanziamento sociale: al ristorante potremmo comunque avere una vicinanza sociale rispettando la distanza fisica, data da tavoli più lunghi o più grandi. Non avremo l’abbraccio o il faccia a faccia, ma manterremmo comunque la socialità, è questa l’opportunità che ci offre la riapertura dei locali, avere un punto di incontro che non si può ricreare altrove. Tecnicamente, però, non so come sarà, di certo non si può magiare con la mascherina”.
Come sarà, allora, il futuro prossimo ed a breve termine della ristorazione? “Non passerà per la progettazione degli interni quanto per la disposizione dei tavoli, tristemente un grande tavolo tondo da dieci potrà accogliere solo quattro o cinque persone – spiega Luca Zaniboni – e non so quanto convenga ripartire in questo senso. Non voglio pensare che diventi un tema di progettazione, perché tra progetto e realizzazione ci vogliono mesi. Se pensiamo ad un locale che abbia come presupposto la distanza, per me è qualcosa di triste. Può durare un anno, ragionevolmente un anno e mezzo, questa crisi, e le soluzioni non possono che essere temporanee. Diverso il discorso per l’alta ristorazione, dove i tavoli sono generalmente pochi e già distanziati. Al di là di prestare maggiore attenzione non credo avranno grosse perdite, ed il tipo di pubblico non è quello più toccato dalla crisi: su un conto relativamente alto, si aggiungerà qualcosa ma non sarà un grande problema. Poi ci sono realtà, penso alla Costa Smeralda, di altissimo livello, che vivono però esclusivamente di turismo straniero, e che dovranno capire come ripartire. Allo stesso tempo, avremo la possibilità di godere di luoghi una volta affollati in maniera del tutto nuova e migliore, specie le piazze delle città d’arte. Sarà un’estate particolare da tanti punti di vista, ma credo sia una crisi passeggera, è interessante ragionarci a livello accademico, ma la ricostruzione non sarà una rivoluzione, specie in Italia, dove bere e mangiare sono un’esperienza unica al mondo”.
Il concetto fondamentale, ribadisce l’architetto milanese, diventa così, quello della “distanza tecnica, specie nei locali, che è sufficiente ma non è la distanza sociale del non vedersi e del non parlarsi, che anzi in tanti casi si è persino ridotta. Alcuni rapporti, sia interpersonali che con lo spazio, ne usciranno rafforzati. Il ristorante, tra qualche settimana, non sarà una zona proibita, ma una zona concessa, pur con tutti i suoi limiti ed i tantissimi casi ancora da capire come affrontare, dalle più immediate alle più particolari, che risolveremo via via che ci troveremo ad affrontarle”.
A non credere in una realtà diversa, soprattutto per la ristorazione, da quella che conosciamo, anche Stefano Lambardi, docente alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze e firma della cantina di Montalcino Case Basse (Soldera), uno dei marchi più prestigiosi del vino nel mondo. “La ristorazione come la conoscevamo prima rischiamo di non vederla per un po’: solo l’idea di andare a mangiare fuori il sabato sera, senza una prenotazione fatta settimane prima, diventa impossibile, perché i posti a sedere saranno praticamente dimezzati. Così come per i bar: è inimmaginabile pensare di stare in coda fuori dal locale per un caffè. Per disperazione, i ristoratori proveranno sicuramente a ripartire, con meno tavoli, ma non è sostenibile né per costi né per spazi. Non riesco neanche ad immaginare un futuro del genere, non siamo attrezzati, l’umano non è fatto per stare ad un metro e mezzo di distanza”.
Spazi limitati, specie nei centri storici di borghi e città, che “sono la caratteristica di tanta nostra ristorazione – riprende Stefano Lambardi – e dove non potremo tornare per un po’. Nel breve termine ci adatteremo, ma non vedo alternativa reale ad un ritorno alla normalità”. Sull’idea di spostarsi, in una sorta di storico contro esodo, dalle città alle campagne, “bisogna sempre tenere in considerazione due aspetti: il primo è che il Covid-19 nei paesi arriva e si diffonde esattamente come nelle città; il secondo è che i costi in campagna e nei borghi spesso non sono affatto più bassi che in città. Il concetto stesso di dire: scegliamo case più grandi, è un assurdo, perché non sono economicamente alla portata”. Il tema, comunque, “è serio – continua Lambardi – perché questa situazione ci ha fatto riflettere molto sull’inutilità di tante cose e sul mondo che abbiamo costruito negli ultimi cinquant’anni. Ma al netto dei quasi otto miliardi di persone che lo popolano, il problema nel lungo termine si risolverà: dopo la Prima Guerra Mondiale abbiamo superato la Spagnola, che fece 50 milioni di morti in tutto il mondo, nel giro di due anni. Non possiamo privarci del contatto fisico, non è bello né giusto. Che poi il modello di sviluppo abbia mostrato tutti i suoi limiti è vero, ma a medio termine non credo che l’architettura sia in grado di dare risposte: l’Italia è fatta di piccoli borghi e strade strette, è il nostro bello, la nostra unicità, ed in un “regime Covid-19” non possiamo certo dilatare gli spazi. La città, al contrario, ha le periferie, ma la cosa davvero da ripensare, il vero grande tema, è un altro: la mobilità. Che va ripensata, sia a livello urbano che extraurbano: dovremmo puntare più sui treni e meno sugli aerei, ad esempio. Tutto, però, dipende dal ruolo della politica, specie in relazione al mondo economico. In definitiva – ribadisce l’architetto Lambardi – l’unica soluzione che vedo a lungo termine è il ritorno alla normalità”. Fonte: WineNews, 07.05.2020
alcune immagini: 1,2 Cantine Antinori, 3,4 Bellavista-Moretti, 5,6 Cavour Città Alta