Lo chef, che con il fratello Roberto guida la cucina del tristellato Da Vittorio, sarà ospite dell’evento del Gusto in programma il 5 e 6 novembre
Se Enrico “Chicco” Cerea” fosse un personaggio dei fumetti, un paragone (ardito ma non troppo) potrebbe essere quello con Obelix, l’amico di Asterix che, caduto da piccolo nel pentolone ribollente di pozione magica del druido Panoramix, ha acquisito una forza sovraumana. Nulla di così traumatico è accaduto ad Enrico, ma non c’è dubbio che ai fornelli sembra esserci nato. E non è così distante dalla realtà, perché tra pentole e padelle ci è letteralmente cresciuto.
Chicco Cerea
Del resto, se hai una mamma che si chiama Bruna e un papà di nome Vittorio, due genitori che sono delle vere e proprie istituzioni della ristorazione italiana, le possibilità sono due. O appassionarsi e seguire le loro orme o, per reazione, scappare lontano dalla cucina e seguire altri sentieri. La sua scelta la conosciamo, e visti i risultati possiamo dire: per fortuna. Deve essere stata la serenità che si respirava in quel continuo viavai fra casa e lavoro, o il divertimento che, nonostante la fatica, ancora oggi dopo decenni accende il suo sorriso al pass a convincerlo. Come ha convinto, anno dopo anno i suoi 4 fratelli: Roberto, in cucina con lui, Francesco che cura la cantina, Rossella e Barbara all’accoglienza.
Troppo facile parlare di dinastia, sarebbe scontato laddove di banale non c’è nulla. È lo spirito di una famiglia solida e solidale, unita nelle diversità, anzi forse proprio in queste. Ognuno dei fratelli ha seguito la sua strada per scegliere di proseguire sul sentiero iniziato nel 1966, il ristorante Da Vittorio. Audaci, a quel tempo i genitori a scommettere sulla cucina di mare, tanto da far dire di “aver insegnato ai bergamaschi a mangiare il pesce”. Dodici anni ci vollero per ottenere la prima stella Michelin, altri 18 per la seconda. Fino ad arrivare, nel 2010 all’agognata consacrazione della terza stella, sotto la guida in cucina di Chicco e Bobo. Un traguardo, l’entrata del locale nell’Empìreo delle grandi maison europee, della quale purtroppo papà Vittorio non ha potuto gioire, essendo passato a miglior vita 5 anni prima. In quel 2005 di dolore, ma anche di rinascita, con il trasferimento da Bergamo a Brusaporto, nella magia della Cantalupa, in un relais che riesce nell’impresa di essere al tempo stesso sfarzoso e discreto.
La famiglia Cerea
Durante la cena ai tavoli di Da Vittorio c’è un momento in cui si torna bambini, tutti: davanti al sontuoso carrello dei dolci e dei bonbon. L’indecisione nella scelta, i colori che nascondono profumi, le praline e la confetteria, la piccola pasticceria, l’imbarazzo di chiedere e sapere che non solo si verrà accontentati ma che lo faranno con piacere. Ecco, quel carrello dei dolci è un po’ l’emblema di questa famiglia. Ogni figlio una consistenza, un carattere, ognuno un sapore, ideale, ciascuno un profumo, e un’inclinazione. Ma tutti con un ruolo ben preciso, abbracciati nel lavoro.
In questo amalgama il ruolo di chef, e di frontman, è toccato a Chicco, il più grande dei fratelli. Ma non si tratta certo di ragioni di primogenitura, gli oltre 50 anni di prestigio non potevano dipendere da una data di nascita. Servivano talento e dedizione, energia e sensibilità, per prendere in mano le redini della cucina. Anche a costo di cambiare le proprie priorità. Voleva fare il veterinario, ha studiato lingue e amava la pasticceria. Ma troppo forte è stato il richiamo dei fornelli. Per scelta e passione il giovane Enrico ha sacrificato per anni le vacanze per studiare tecniche e ingredienti, iniziando da quelli di “casa”. Figlio d’arte, ma con la voglia di non crescere da figlio di papà.
E allora via, lontano, in giro per l’Europa e per il mondo. A Parigi da Jacques Cagna, poi da Roger Vergé in Costa Azzurra, in Baviera nella brigata di Heinz Winkler, il primo chef italiano (altoatesino) a conquistare le tre stelle Michelin, poi a New York da Sirio Maccioni fino alla corte di Ferran Adrià in Catalogna. Subendo, ovviamente, il fascino della creatività dei grandi chef. E interrogandosi, magari, su come una volta rientrato avrebbe potuto farla convivere con la solida tradizione del ristorante di famiglia. Tornava a casa ogni volta e lì portava il sapere, e i sapori, che aveva trovato, raccontava le scoperte al padre. E da lui imparava il valore della fatica, la passione del lavoro. Faceva esperienza e si faceva le ossa, scopriva il mondo. E capiva di voler tornare lì dove tutto era nato, lui compreso. Fonte: laRepubblica, IL GUSTO, Antonio Scuteri, 24.10.2022