Buona e sana, fa bene a chi la mangia e all’ambiente. Allevata in modo virtuoso, dove il benessere animale è rispettato al cento per cento. E anche il gusto ci guadagna
Gli allevamenti intensivi sono sotto accusa: si punta il dito contro un sistema ritenuto colpevole di tanti tra i problemi che affliggono il nostro mondo, incluso il diffondersi di epidemie come quella di coronavirus. Viene spontaneo chiedersi: potremo ancora mangiare carne senza rischi? Esiste un’altra via? La risposta è sì. E va cercata molto più vicino di quanto si pensi. Nei tanti allevamenti italiani che fanno del benessere animale e della qualità del prodotto una priorità.
È la filosofia che anima Bovinmarche, associazione di allevatori marchigiani che raccoglie 400 soci con una media di 24 capi per stalla: piccoli allevamenti, praticati in modo estensivo, dove si trovano per la maggior parte bovini di razza Marchigiana, parte dell’IGP Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale. E dove, soprattutto, gli animali stanno bene. «I nostri allevatori – spiega Paolo Laudisio, direttore di Bovinmarche – usano per l’alimentazione principalmente prodotti aziendali. Le vacche stanno al pascolo in estate, all’aperto. I vitelli restano con le madri fino al momento dello svezzamento, che avviene in modo naturale, quando le vacche non hanno più abbastanza latte o non trovano al pascolo abbastanza cibo per sé e per nutrire il piccolo. Poi vengono portati nelle stalle».
Gli animali vivono una vita sana, che fa bene anche all’ambiente di cui fanno parte: «è un’attività che preserva la nostra collina e i nostri monti – continua Laudisio – dove il pascolo si traduce nel regimentare le acque, nel lasciare i prati puliti, in una presenza dell’uomo che rende il territorio custodito. Se lasciato a se stesso, sarebbe immediatamente esposto alle frane: basterebbe un acquazzone per far franare tutto. Da un punto di vista ambientale e paesaggistico, questo tipo di allevamento ha un valore enorme». Che si aggiunge ovviamente al valore dato dal benessere animale, certificato da una serie di riconoscimenti: la carne ottenuta è ogm free, e antibiotic free, un risultato tutt’altro che difficile da conseguire, con questa forma di allevamento, secondo Laudisio, dato che le mucche vivono in ampi spazi.
«In questo periodo si parla tanto di distanziamento. Se i vitelli sono attaccati l’uno all’altro, appena uno si ammala, contagia tutti. Qui è diverso. Certo, se uno si ammala, lo curiamo, anche con l’antibiotico le poche volte che è necessario, e poi lo vendiamo a parte, attestando che è stato curato con l’antibiotico. Ma non è questa l’unica certificazione che abbiamo. Sottoponiamo i nostri allevamenti a controlli rigorosi, perché il consumatore che sceglie di spendere qualcosa in più per avere la nostra carne deve avere una comunicazione chiara e certa di quello che acquista. È impegnativo, ma ne vale la pena. Senza dimenticare che, vendendo sia alla Grande Distribuzione Organizzata che alle mense scolastiche di Roma, abbiamo altri controlli. E poi ci sono le verifiche e i vincoli imposti dal marchio IGP.
Insomma, il benessere animale non è un concetto teorico, ma è attestato da parametri concreti. Del resto, l’allevatore che si disinteressa di questo benessere, che tratta male i suoi animali, va contro il proprio interesse: un animale che sta bene, cresce bene, e dà una carne di qualità. Un animale maltrattato no. Un concetto che vale per tutti gli animali da reddito, che nascono con questo scopo, ma a cui va assicurata la vita migliore possibile. Anche per gli ovini. E noi lavoriamo anche con l’Agnello del Centro Italia, per il quale abbiamo ottenuto l’attestato “Friend of the Earth”, unici in Italia insieme a un’altra associazione: i nostri allevatori praticano ancora la transumanza, in un rito che si perpetua da sempre e che porta giovamento all’ambiente».
E anche quando si parla di agnelli la differenza è lampante. Spesso infatti acquistiamo carne ovina etichettata con la scritta “origine: Italia”. In realtà troppo spesso si tratta di animali «allevati all’estero, che poi vengono portati in Italia, dove vengono solo macellati. E il lungo viaggio è sicuramente una fonte di stress». E la differenza, poi, si sente nel piatto.
Sula stessa lunghezza d’onda si trova Jacopo Colozza, titolare dell’Azienda Agricola Fontenuova a Fonteblanda, nella Maremma grossetana. È la terra dei butteri, e soprattutto delle vacche maremmane dalle grandi corna lunate, di cui quelle allevate secondo il metodo biologico da Colozza sono eredi: «Il nostro è un allevamento che si basa sulla linea vacca vitello. Le fattrici partoriscono allo stato brado i vitelli, e noi alleviamo solo quelli. Le vacche sono un incrocio a base maremmana, la razza autoctona più adatta per questo specifico territorio: privilegiare una razza autoctona significa valorizzare un adattamento secolare, minimizzando i rischi di malattie legati allo stress climatico. Ma la Maremmana era una razza da lavoro, quindi l’abbiamo ingentilita con la Limousine. Il toro Limousine e questi incroci a base maremmana consentono di avere la resistenza e la rusticità della razza autoctona ma una maggior resa di tagli nobili, un coscio più rotondo, con una percentuale di tagli di pregio maggiore».
A Fontenuova le 60 fattrici vivono nel loro habitat, in spazi vastissimi, mantenendo vivo il legame con il territorio: «Vivono nel bosco e, compatibilmente con le condizioni meteorologiche, nei pascoli, ma sempre libere: non vengono mai chiuse nella stalla. Tutto è libero: non facciamo fecondazione artificiale; i parti avvengono in modo autonomo, senza aiuti. Il vitello rimane con la mamma fino allo svezzamento, prendendo il latte fino a 6-7 mesi. Nessuno svezzamento forzato: l’allattamento ha un’azione protettiva. Dopo lo svezzamento il vitello viene trasferito in ampi box, dove viene ingrassato solo con prodotti aziendali, rigorosamente biologici: erba o fieno, integrati con una farina prodotta sempre in azienda, in un nostro mulino, con prodotti coltivati da noi, favino, orzo e mais. Così viene allevato fino a 15-20 mesi di età». Nessuna forzatura, dunque, a nessun livello: si rispetta la natura del bovino, libero di muoversi, di mangiare e di procreare senza nessuna costrizione. Una scelta che inizia nel rispetto delle normative sul biologico e sull’allevamento estensivo, che impongono larghi spazi a disposizione degli animali, sia nei pascoli che nella stabulazione, e che segue il percorso dei bovini fino al macello, considerato che «la macellazione avviene nel raggio di 20 km dall’azienda». Un tassello importante per arrivare alla qualità.
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È però l’occhio del macellaio il primo a saper distinguere pregi e difetti della carne, la sua esperienza è quella che raccoglie l’importanza di ogni passaggio della filiera.
Ne sa qualcosa Luigi Parma, che nella sua macelleria di Monza ha fatto della qualità una vera missione. Alla base di tutto, ovviamente, la scelta degli allevatori. «Per i bovini scegliamo vitelli e castrati di Fassona piemontese, cresciuti ai piedi del Monviso in un piccolo allevamento: Giovanni Scarafia è il nostro punto di riferimento. Una conduzione familiare, un allevamento fatto nel modo più naturale possibile. L’alimentazione prevede foraggio, fieno, mais, orzo e grano coltivati dagli stessi allevatori e rigorosamente no OGM. Niente integratori, un rispetto totale per l’animale e per l’ambiente, nell’ottica della sostenibilità. Il risultato è una carne tenerissima e sana, con poco grasso “buono”, poco colesterolo, priva di sostanza nocive per la salute. E soprattutto buona: la qualità paga, la prova è nel piatto, a parlare è la stessa carne».
Una qualità che coinvolge tutti i tagli del bovino. Perché se si sceglie un prodotto di eccellenza, anche i tagli considerati meno nobili sono eccellenti. Un ragionamento tutt’altro che scontato, ma che porta a valorizzare ogni esemplare nella sua interezza, considerando che «ogni mezzena ha un solo filetto. Quel filetto sarà di qualità assoluta. Ma anche con 100 grammi di trita, ricavata da quello stesso capo, si otterrà una svizzera di qualità, dal sapore pieno, che non perderà acqua e peso in cottura. Se un filetto è di bassa qualità, anche se si tratta di un taglio nobile, sarà comunque deludente, duro, insapore. Del mio filetto non si scarta un grammo di prodotto, ma se si sceglie un bollito, un ossobuco, uno spezzatino, qualsiasi taglio sarà ugualmente di qualità».
È un concetto fondamentale in un’ottica di sostenibilità, e anche nel quadro di un consumo più consapevole. «fondamentale per la mia selezione è il rapporto con l’allevatore, che è personale, diretto. Poi ci sono tanti altri fattori da guardare, a partire dal macello di appoggio, che deve avere determinati requisiti. È anche importante scegliere la giornata meno carica, perché ci sarà maggiore attenzione nella macellazione se il lavoro è più tranquillo. Il trasporto dalla stalla al macello è fondamentale, l’animale non si deve stressare, deve essere tranquillo. E alla fine il macellaio attento tutte queste cose le vede sul banco. Del resto, la mia è una filiera cortissima, fatta di due passaggi: allevamento e macello. Ho due soli referenti, e non devono sbagliare».
Naturalmente l’attività di Parma non si ferma ai bovini: «è un’attività globale, non minor attenzione va riservata agli ovini, al pollame, al coniglio, ogni voce ha una persona di riferimento. Ci deve essere fiducia. I capretti per questa Pasqua provenivano tutti da allevamenti piccolissimi, qui sopra Sondrio: micro allevatori che lavorano davvero per passione. E poi ci sono i suini, per i quali mi affido a un piccolissimo salumificio brianzolo, che seleziona allevamenti di qualità».
E in ambito di allevamento suino, emblematica è l’esperienza dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense: un ristorante stellato e un relais, membro di Les Collectionneurs, ma prima di tutto una vera azienda agricola, condotta con rigore e passione per una produzione di eccellenza di salumi e tanto altro. Qui i maiali sono di casa. «Alleviamo il Suino Nero di Parma – spiega Giovanni Lucchi, direttore dell’Antica Corte – una razza autoctona che si era quasi persa, ne erano rimasti pochissimi esemplari, e che è stata introdotta con un lavoro di 15 anni. È una razza rustica, con caratteristiche comuni ad altri suini come la Cinta Senese o il Nero dei Nebrodi: un accrescimento secondo natura, la necessità di stare all’aperto, una grande robustezza. Sono animali che figliano poco, non hanno una resa “industriale”. Li macelliamo a 2 anni, quando arrivano a pesare sui 260 kg: diventano grandi, cosa che a noi serve perché facciamo principalmente culatello. Vivono allo stato semibrado, stando fuori dalla primavera all’autunno, sempre in base al meteo; in questo modo acquisiscono muscolatura, ma anche una bella marezzatura all’interno della carne e un ottimo strato di grasso superficiale, che dà un lardo fine, con un punto di fusione basso. Ma non facciamo solo culatello, facciamo tutto: si usano i tagli nobili e tutte le altre parti, facciamo la cicciolata, e usiamo le carni fresche in cucina, con risultati splendidi, perché sono rosse e marezzate, tanto da concedersi anche a cotture “rosa”, proprio perché ricche di mioglobina».
Anche in questo caso la natura del maiale è rispettata e preservata: «Partoriscono all’aperto con parti naturali – continua Lucchi – e diventano presto forti. Sono allattati dalle madri fino a che ne hanno voglia. Poi l’alimentazione procede con prodotti dell’azienda. Non è a volontà, per assicurare un accrescimento lento. Usiamo orzo, mais e una fava proteica, ma anche gli “scarti” della cucina, come da tradizione, tutto quello che deriva dalla pulitura di verdure e ortaggi. Il risultato è una carne che è la vera carne di maiale, quella che ci siamo dimenticati ma che ha reso celebri i prodotti del nostro territorio». Un territorio in cui i suini sono perfettamente integrati: «si muovono vispi e veloci nei pioppeti, lungo il fiume. Sono parte di questo habitat e della nostra tradizione». Un’immagine sicuramente in contrasto con quella dei grandi allevamenti industriali, e che ancora una volta rimanda all’importanza di un’alleanza antica tra uomo e natura, che può trovare ancora compimento: perché un allevamento attento porta la qualità nel piatto nel rispetto dell’ambiente. fonte: Linkiesta, Daniela Guaiti, 21.05.2020