Tra le molte critiche alla carne coltivata in laboratorio, una delle più frequenti riguarda la sua supposta “non naturalità”. Dopo la posizione presa da Slow Food, anche Gambero Rosso dice la sua
Tra le molte critiche alla carne coltivata in laboratorio, una delle più frequenti riguarda la sua supposta “non naturalità”, insieme alla taglio rispetto ai valori la nostra storia gastronomica e il nostro modello alimentare e agricolo. Un’impostazione sposata anche da Slow Food che in questi giorni ha espresso la sua posizione in merito alla carne in vitro schierandosi, come prevedibile, nel fronte del No. Smontando contestualmente l’idea che possa essere una soluzione alla crescente richiesta di carne e al conseguente dilagare di allevamenti intensivi che tanti danno causano all’ambiente, agli animali, alle persone, all’economie delle comunità rurali. Con Slow Food, anche molte della associazioni di categoria che segnalano come la carne coltivata sia lontana dai valori del made in Italy, dal legame con il territorio dalle nostre produzioni agroalimentari. Ma se su quest’ultimo tema si è parlato a più riprese, ultima la querelle sulla tradizione italiana scatenata dalle dichiarazioni del professor Alberto Grandi, ci piacerebbe riflettere su cosa si intenda, oggi, per naturalità (e quale sia il termine corretto per indicare questa non-naturalità).
È naturale un chicco di caffè raccolto, tostato e poi estratto per infusione, percolazione, in acqua calda o fredda? È naturale avere batterie di polli che sopravvivono a stento a malattie e sovraffollamento? È naturale incrociare due piantine di varietà diverse per avere un miglioramento genetico? Insomma: in quale punto qualcosa perde il legame con la sua origine naturale?
La carne coltivata non è sintetica, ma proviene da una minuscola parte di un animale, che in genere non viene ucciso per il prelievo del tessuto. Dunque ha un’origine animale. Il modo in cui vengono fatte sviluppare in vitro le cellule riproduce in laboratorio quello naturale. Si potrebbe fare un paragone (forzato, lo sappiamo) con le pratiche agricole idroponiche che consentono lo sviluppo vegetale in assenza di terra, dunque risolvendo i problemi legati alla mancanza di suolo (con risultati organolettici molto validi, tra l’altro). Esattamente, quale idea di naturalità si mette in discussione con queste pratiche? E quali sono consentite e quali no? In base a quali motivazioni? E con quale sistema agricolo di riferimento occorre confrontarsi?
Quali sono i parametri di riferimento
La nostra storia ci dice che nell’allevamento come nell’agricoltura, la produzione industriale sta rubando economie e terreno (anche in senso letterale) alle comunità agricole, custodi di cultura, storia, ecosistemi, comunità. Crediamo che, se mai la carne coltivata entrerà in concorrenza con la produzione zootecnica, sarà con quella intensiva e ad alto tasso di industrializzazione e non con la sua analoga artigianale, quella che nonostante tutto resiste, con fatica e orgoglio. Ovviamente discorso simile si può fare per il latte e gli altri prodotti ricreati in vitro.
Carne coltivata vs carne allevata in modo intensivo
Oggi i costi di produzione della carne in vitro sono altissimi, come è normale quando la ricerca scientifica è ancora in corso, ma se come presumibile in futuro il prezzo scenderà, crediamo che il target di riferimento sarà diverso da quello del bravo allevatore che ha a cuore la cura del territorio e degli animali. Perché oggi quella carne “buona, pulita e giusta” deve essere cercata e scelta, quali che siano i motivi di questa scelta, e non entra nei carrelli della spesa per caso. Chi acquista seguendo la propria visione del cibo e del mondo, con criterio e consapevolezza, continuerà a farlo, e non si farà distrarre dalla presenza sugli scaffali di prodotti diversi. A meno che non scelga con altrettanta consapevolezza di mangiarli, visto che in Italia è obbligatorio per legge indicare in etichetta ingredienti e loro provenienza. Sempre che l’Autorità Europea sulla Sicurezza Alimentare (EFSA) dia l’ok, accertata la sua sicurezza come per ogni Novel food, e aprendo le porte del mercato europeo, Italia inclusa. Con buona pace dei nostri governanti. Con l’autorizzazione dell’Unione Europea anche da noi si potrà acquistare la carne coltivata purché sia prodotta all’estero, come imposto dal recente disegno di legge che ne vieta sul nostro territorio non la vendita ma la produzione e con essa le economie che ne derivano e la possibilità eventuale di definire una “via italiana” a questo tipo di prodotto. Magari riuscendo ad attrarre anche quel consumatore – interno ma non solo – che trova nel “made in Italy” un criterio di acquisto.
Un paradosso che ha tutta l’aria di un pasticcio populista, che non “salva” (se mai dovessero essere salvati) i cittadini, o per dirla con il Ministro Lollobrigida “il futuro dei nostri figli”, ma si limita a un proclama che avrà come unico effetto di frenare la ricerca scientifica, che altrove corre e continuerà a correre velocemente, condannandoci a essere sempre meno competitivi. Non una storia nuova: “Prima del blocco alla ricerca degli ogm c’erano 300 progetti di ricerca pubblica, sono stati tutti chiusi. E così abbiamo buttato via un capitale di conoscenza, provocando grossi danni agli agricoltori che non potendo coltivare qualità ogm sono, oggi, meno competitivi a livello internazionale” ci diceva qualche tempo fa Beatrice Mautino, (biotecnologa, divulgatrice scientifica e tra i fondatori di FRAME – Divagazioni scientifiche)
Ma perché il progresso ci spaventa tanto?
Volendo analizzare le cose con uno sguardo laico, ci sentiamo di dire – in tutta coscienza – che l’industrializzazione del cibo ha portato solo danni? Al di fuori della retorica del “buon cibo di una volta”, non possiamo ignorare il fatto che “una volta” il cibo forse era buono o buonissimo (e anche questo è da vedere di caso in caso), ma spesso era insufficiente, poco vario o addirittura non c’era proprio. Che chi abitava in città talvolta non aveva di che nutrirsi adeguatamente, e chi viveva in campagna aveva a disposizione esclusivamente prodotti strettamente locali – che sono altra cosa dal chilometro zero di cui parliamo oggi (quello con la bottega di specialità dietro l’angolo o la spesa online) – senza possibilità di attingere a un paniere più vario ed equilibrato dal punto di vista nutrizionale, e proprio quell’alimentazione generava malnutrizione e malattie, come la pellagra che imperversava in quella fantomatica età dell’oro dei nostri nonni. Fuori dai denti e dall’idea romantica del cibo “come un tempo”, l’era industriale ha salvato dalla fame, consentendo l’accesso al cibo a tutti, o quasi. Ci piaccia o meno. L’idea di un cibo “sano, pulito e giusto”, è frutto di un ragionamento fatto a stomaco pieno. E ben venga, sia chiaro, ma attenzione a non mettere sullo stesso piano il bisogno di cibo buono e autentico con il bisogno di cibo. Sta a noi, ricca società occidentalizzata a fare in modo che una certa storia non si ripeta mai più. Ma attenzione a non guardare il dito, mentre si indica alla luna.
Questo modello agricolo e zootecnico frutto del progresso scientifico ha prodotto tanti danni, per questo condannabile senza dubbi né incertezze dal punto di vista etico, ambientale, nutrizionale. Ma – ci azzardiamo a dire – non perché la scienza sia cattiva di per sé, ma perché gestita in modo irresponsabile e rapace. Il progresso è un’inevitabile conseguenza del trascorrere dei giorni, come usarlo è frutto delle scelte degli uomini. E nulla impedisce di pensare che, proprio grazie alla nuova carne coltivata, risolto il problema di produrre abbastanza proteine animali per soddisfare una richiesta sempre crescente, non si riesca a lasciare spazio a modelli di allevamento più sostenibili, equi, e di valore.
P.S. A proposito di sicurezza alimentare
C’è poi una domanda chiave (e tra le più sensate): mangiare carne coltivata fa male? In attesa di risposte ufficiali da parte di organi di controllo e al netto della goffa uscita del Ministro Lollobrigida, che riportava con evidenti inesattezze un rapporto dell’Oms sulla carne coltivata, accollando una serie di rischi mai riportati nel documento, ci limitiamo a riportare la risposta di chi ha competenze di noi.
“Dal punto di vista della sicurezza alimentare, il consumo di carne coltivata non rappresenta un rischio per la salute umana. Dal punto di vista nutrizionale non sono presenti degli aspetti negativi da considerare. Dal punto di vista della sicurezza alimentare, crescendo in un ambiente controllato si riduce il rischio di malattie di origine animali e non c’è la necessità di impiegare antibiotici. Oltre a questo, diventa possibile confezionare un alimento in un unico luogo, evitando contaminazioni esterne”. cit. Fondazione Veronesi fonte: Gambero Rosso, Antonella De Santis, 01.06.2023