Il fondatore di Slow-Food invitato da Francesco al Sinodo: «Un’umanità che cresce non può permettere che venga sfruttato da pochi e non messo a disposizione dei tanti». A marzo un libro insieme
Carlo Petrini, come è nato l’intervento del fondatore di Slow Food al Sinodo?
«Mi ha chiamato il Papa. Mi ha detto di andare là».
E Lei?
«Ho accettato. Ma ho spiegato che sono agnostico».
E lui?
«E lui … ha detto che sono un “agnostico pio”. Allora sono andato e ho visto un’umanità straordinaria».
Ad esempio?
«Gente che lotta accanto ai popoli dell’Amazzonia per difendere la Foresta. Gli indigeni. Donne in prima fila nella tutela dei diritti e della terra. Ho ascoltato interventi bellissimi. Devo dire: non immaginavo».
Il Papa lo conosceva. È vero che scrivete un libro?
«È già un po’ che ci lavoriamo. Dovrebbe essere pronto entro marzo. È un dialogo. Prioritariamente riflessioni sull’enciclica Laudato sii».
Considerazioni sull’ambiente in pericolo?
«Ma anche considerazioni legate al proprio vissuto».
Di quale genere?
«Il Papa ha ricordi molto belli legati alla sua migrazione. È cresciuto in una famiglia di migranti di origini piemontesi in una Buenos Aires degli anni ‘40 -’50. E ha conservato il rispetto per il cibo come componente per dimostrare affettività».
Cosa c’entra il cibo con l’Enciclica sull’ambiente?
«Non è un’enciclica verde. Ma è un’enciclica sociale. Il Papa esprime in maniera molto alta un concetto: tutto è connesso. E non si può parlare dell’ambiente se non si parla di sofferenza, specialmente dei poveri, della sostenibilità e di un doveroso paradigma produttivo. Il problema é che e stata poco capita. Da mondo laico ma anche dai cattolici».
Ha parlato di questo al Sinodo?
«Ho parlato del cibo come valore relazionale. Il cibo, quando è buono, pulito e giusto ha una potenza straordinaria che può tutelare la biodiversità umana e naturale, favorire l’interazione e il meticciato, garantire una buona salute. Ma ho parlato anche delle donne».
Perché?
«Nella vita di ciascuno c’è una mamma o una nonna che attraverso l’educazione al consumo corretto del cibo ci ha trasmesso quella intelligenza del cuore, alla base della nostra esistenza. Ma anche dell’importanza dell’agricoltura e della raccolta: gli indigeni dell’Amazzonia tutelano la foresta con i loro saperi».
Ha lanciato l’allarme su agroindustria e monoculture. Perché?
«Un’umanità che cresce e che ha bisogno di cibo non può permettere che venga sfruttato da pochi e non messo a disposizione dei tanti. La minaccia dell’agro-industria, dell’accentramento di potere, delle monoculture e degli allevamenti intensivi, legata alla deforestazione, alla crisi climatica e all’aumento della forbice tra ricchi e poveri, va combattuta».
Come considera le politiche per l’ambiente?
«Inadeguate. La situazione richiede una mobilitazione più forte. È positivo che i giovani rivendichino risposte perché sentono di non avere futuro. Ma la sofferenza del pianeta la vediamo tutti. Anche da noi. Con le bombe d’acqua. Con i ghiacciai che si sciolgono sotto i nostri occhi. Non si può più stare silenti». Fonte: Corriere della Sera, Virginia Piccolillo, 16.10.2019