Il fondatore di Slow Food non ne può più di Masterchef & delivery. E lancia una raccolta firme per cominciare tutto daccapo, cioè dai bambini di tre anni
Pollenzo (Cuneo). Un’ora di educazione alimentare obbligatoria a settimana nella scuola, come per le lingue antiche e moderne, come per la matematica e l’educazione fisica. Perché il cibo è sapere, sapienza, salute, ambiente, cultura. Il cibo, il giusto cibo, è futuro e salvezza del Pianeta. Ne parliamo con Carlìn Petrini nel suo studio all’ateneo di Scienze Gastronomiche a Pollenzo: quest’anno si celebra il ventennale della fondazione, e dal 2017 qui si laureano ragazzi con piena dignità accademica: corsi triennali, magistrali e master. Ma tutto comincia da un gesto piccolo, il cibo in tavola, e prima ancora nelle buste della spesa, nel carrello e nei campi, negli allevamenti e nella storia individuale di ciascuno.
Carlìn, perché portare l’educazione alimentare a scuola?
«Perché racchiude ed esprime tematiche multidisciplinari, dall’ambiente alla salute, dall’economia al lavoro. Però è necessaria una visione d’insieme per un approccio olistico. Sarà il grande tema politico degli anni a venire. Abbiamo lanciato il nostro appello al governo, ci auguriamo che lo firmino in tanti».
Voi sostenete che si debba cominciare con i bambini di tre anni, cioè dalle scuole dell’infanzia: perché?
«Ce lo ha insegnato il progetto degli orti di Slow Food: non esiste didattica migliore. Ma finora ci siamo affidati alla buona volontà degli insegnanti e dei nonni, adesso si deve uscire dall’ambito del volontariato per arrivare a scelte istituzionali, governative. Se non ora, quando?».
Quanto siamo lontani dall’ora di cibo a scuola?
«Non molto, io credo. Se ne parla da una decina di anni, ed esistono progetti di legge giacenti di almeno tre schieramenti politici. Mi pare di aver captato una precisa volontà del governo».
Chi insegnerebbe la nuova materia? Siamo pronti?
«Il calo demografico ha portato a una riduzione delle classi scolastiche: circa 40 mila insegnanti rischiano di ritrovarsi presto senza lavoro. Possiamo riqualificarli con appositi corsi, tenendo conto che la nuova scuola dovrà comunque aprirsi anche ad altre nuove materie, come l’educazione all’affettività. Il ruolo delle università può essere straordinario: dobbiamo recuperare un sapere centenario, prima che vada perduto per sempre. Non possiamo dimenticare chi siamo: anche una corretta educazione alimentare ce lo ricorda. Ci troviamo di fronte a una scommessa enorme e non dobbiamo sbagliare risposta».
Quali sono i collegamenti principali tra cibo e clima?
«La Fao ha calcolato che entro il 2050 avremo nel mondo 250 milioni di migranti a causa dei cambiamenti climatici, e tutto sarà interconnesso al sistema alimentare. Il cambio del clima significa altre coltivazioni e altra alimentazione: nella storia dell’umanità non è mai accaduta una cosa del genere in tempi così brevi. Il 37 per cento dell’anidride carbonica è determinato dal sistema alimentare, e solo il 17 per cento dalla mobilità. Le comunità umane si adeguano ai territori e al clima, oggi sconquassati».
L’educazione alimentare può cambiare almeno in parte il mondo? E nell’attesa, ci dà qualche consiglio pratico per una più corretta alimentazione?
«Di sicuro il mondo lo cambiano i piccoli gesti quotidiani, che tanto piccoli non sono. Basti un dato: sul nostro Pianeta abbiamo circa 800 milioni di persone malnutrite e oltre un miliardo di obesi. Il cibo, da sempre considerato quasi una cura per l’uomo, sta diventando una delle peggiori malattie. Dobbiamo insegnare ai bambini e ai ragazzi ad alimentarsi in modo virtuoso, sottolineando l’importanza del cibo locale, stagionale e biodiverso. Abbiamo troppa quantità calorica e poca qualità nutrizionale. Abbiamo bisogno di meno proteine animali e dobbiamo evitare i cibi conservati negli imballaggi plastici monouso, molto dannosi, oltre a quelli ultra processati. Bisogna risparmiare acqua il più possibile. Bisogna insegnare come il cibo venga prodotto, venduto e distribuito, consapevoli della minaccia che deriva dalle logiche di mercato che portano povertà, ingiustizia sociale e sprechi».
Ecco un’altra parola chiave: spreco. Come ridurlo?
«È il punto di partenza del disastro: nel 2050 sulla Terra saremo 10 miliardi, ma non per questo dovremo produrre più cibo: semmai il contrario! Ogni anno si sprecano oltre un miliardo di tonnellate di alimenti, cioè un miliardo di pasti al giorno, e si sciupano 250 mila miliardi di litri d’acqua: un quantitativo sufficiente a soddisfare i consumi domestici di New York per i prossimi 120 anni. Sono cifre immense, ma la politica mondiale non intercetta la gravità fatale del problema. Non è il Prodotto interno lordo di una nazione l’indicatore del benessere – questa è una clamorosa falsità storica – ma il suo livello di salute pubblica».
Anche il Sud del mondo, il più povero, spreca cibo: com’è possibile?
«Perché laggiù mancano le infrastrutture per conservarlo, mentre i Paesi più ricchi hanno accettato la riduzione del costo dell’alimentazione: ma così vanno in crisi drammatica i produttori».
Come giudica le vendite online?
«Rappresentano un taglio di almeno il venti per cento dei compensi ai contadini, che quel cibo producono e di quel lavoro vivono».
Voi chiedete l’ora di educazione alimentare obbligatoria nelle scuole, mentre in televisione pare ormai obbligatorio parlare sempre di cibo, vino e ristoranti. Come se ne esce?
«La dimensione ludico-spettacolistica del cibo in tv è un’autentica iattura. Negli schermi di quasi tutto il mondo c’è un’invasione di cuochi: ma questa è diseducazione alimentare».
Qui a Pollenzo si “insegna cibo” da vent’anni: quale bilancio se ne può trarre?
«Abbiamo 450 allievi provenienti da 72 Paesi su 96: gli stranieri rappresentano il 45 per cento. Vogliamo che siano sempre di più, pensiamo al 60 per cento, alzando il numero complessivo a 750 iscritti, senza stravolgere niente. E vogliamo mantenere la nostra peculiarità internazionale: siamo stati i primi, in Italia, ad inaugurare un’Università di Scienze Gastronomiche, si può dire che questa definizione neppure esistesse, e dopo di noi ci hanno seguito altri diciassette atenei. Nessuna gelosia: quando un’idea è buona, bisogna lasciarla circolare. E comunque siamo gli unici a organizzare cinque viaggi didattici all’anno nel mondo. Quest’anno gli allievi vanno in Sri Lanka, Messico, Thailandia, Kenya e Brasile. In ogni luogo del mondo possiamo contare sulle reti di Slow Food, Terra Madre e sugli ex allievi, che ormai sono circa cinquemila. Questa didattica è la nostra identità».
Oltre alla biodiversità dei prodotti, anche quella culturale?
«Certo che sì! È da sempre un cardine del nostro lavoro. Noi di Slow Food non siamo mai stati eurocentrici, e pensiamo che anche l’esaltazione ossessiva del “made in Italy” sia sbagliata. Un grave errore credere nella centralità della cultura occidentale, e questo vale anche per il cibo e l’alimentazione. Ci stanno arrivando persino i francesi…».
Ci ricorda la famosa battuta sullo sciovinismo?
«Nessuno è più sciovinista di chi non lo è».
È vero che lei, Carlìn, ha rifiutato di scrivere la voce “enogastronomia” per la Treccani?
«Sì, perché la maggior parte del mondo non ha il vino. E il pane è un alimento che riguarda soltanto il 30 per cento dell’umanità, oltre la metà ha il riso. In ogni caso, per la Treccani scriverò la voce “scienze gastronomiche”: penso di poter essere un discreto estensore». Fonte: Il Venerdi, La Repubblica, Maurizio Crosetti, 31..5.2024