Dalle proteste operaie degli Anni Settanta alla solitudine del microonde, il vecchio portapranzo dei lavoratori, superato da mense e buoni pasto, dovrebbe avere un posto nel Dizionario delle cose perdute di Guccini, come le cartoline e le cabine telefoniche
Nel 1932, sulle impalcature del Rockefeller Center in costruzione, Charles C. Ebbets scatta una foto che diventerà celebre: undici operai mangiano seduti uno accanto all’altro su una trave sospesa a 250 metri d’altezza. Il redattore del New York Herald Tribune nella didascalia dell’immagine elogia la loro libertà di stare all’aria aperta, «mentre migliaia di newyorchesi corrono verso ristoranti affollati e bar strapieni».
Dabbawala al lavoro in India A Mumbai, verso l’ora di pranzo, un’efficientissima rete di fattorini consegna sui luoghi di lavoro i cestini da pranzo, dabba, preparati dalle mogli dei lavoratori. Ciascun dabba giunge all’esatto destinatario attraverso un sistema di segnali codificati con numeri e colori. L’incredibile precisione di questo sistema di consegne è un esempio di eccellenza: l’Università di Harvard ha stimato un margine di errore irrisorio, circa uno ogni sei milioni.
Il viaggio rocambolesco dei dabba che percorrono decine di chilometri prima di raggiungere il destinatario e far ritorno a casa, è al centro della commedia romantica “Lunchbox”. Nel film qualcosa va storto e il pranzo cucinato con amore da Ila per riconquistare il marito viene recapitato sulla scrivania di un impiegato vedovo prossimo alla pensione. I due, senza conoscersi, iniziano una singolare corrispondenza fatta di ricette deliziose e di bigliettini nascosti nella scatola di metallo. Perché, come scrive Ila al suo ignoto interlocutore, «la via del cuore passa dallo stomaco».
Prima che le mense aziendali sfamassero gli operai, le mogli hanno sempre pensato al pranzo dei loro mariti, cucinando qualcosa di buono e saporito o pigiando gli avanzi della sera precedente dentro una scatola di metallo.
Il vecchio portapranzo di operai e impiegati, superato da mense e buoni pasto, dovrebbe avere un posto nel Dizionario delle cose perdute di Guccini al pari delle cartoline e delle cabine telefoniche.
Vintage già dal nome, anzi, dai nomi: schiscetta, gamella, baracchino, caccavella, su gaungiu, scutedd, cumpanaggio, tegamino. In “Marcovaldo ovvero Le stagioni in città”, Italo Calvino la chiama pietanziera, dedicandole l’omonimo racconto.
È il 1963 quando la casa editrice Einaudi lo pubblica. In una non meglio specificata grande città, il manovale Marcovaldo esce di casa la mattina portandosi dietro una scatoletta di alluminio riempita dalla moglie con gli avanzi della cena, pochi e male assortiti, le posate avvolte in un fagotto che tiene in tasca. Scrive Calvino: «Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato «pietanziera» consistono innanzitutto nell’essere svitabile. Già il movimento di svitare il coperchio richiama l’acquolina in bocca, specie se uno non sa ancora quello che c’è dentro, perché ad esempio è sua moglie che gli prepara la pietanziera ogni mattina. Scoperchiata la pietanziera, si vede il mangiare lì pigiato: salamini e lenticchie, o uova sode e barbabietole, oppure polenta e stoccafisso, tutto ben assestato in quell’area di circonferenza come i continenti e i mari nelle carte del globo, e anche se è poca roba fa l’effetto di qualcosa di sostanzioso e di compatto. Il coperchio, una volta svitato, fa da piatto, e così si hanno due recipienti e si può cominciare a smistare il contenuto».
Sul finire del 1949, Renato Caimi ha l’idea di brevettare un contenitore ermetico: sul tram che da Nova Milanese lo porta a Milano ha appena visto un operaio, al centro della carrozza, perdere l’equilibrio e rovesciare un pentolino con la minestra. Nel 1952 Caimi, piccola azienda metalmeccanica della Brianza, brevetta un contenitore in alluminio con chiusura a leva che protegge ermeticamente il contenuto.
Schiscetta “La 2000” di Caimi brevetti, esposta al museo del design della Triennale di Milano
Racconta Erri De Luca, scrittore con un passato da operaio specializzato, muratore, magazziniere, camionista di averli usati per una ventina d’anni: «In fabbrica si poteva metterli in caldo in un contenitore. In cantiere un po’ prima di mezzogiorno il manovale accendeva un fuoco e sopra ci metteva una gran casseruola con acqua a bollire. Era un oggetto sacro e un intervallo liturgico, quello di pranzo. (…) Sulle chiacchiere nostre batteva un rumore di metallo raschiato e si spandeva odore di cucine buie. Chi aveva una donna a casa, si trovava il pranzo cucinato da lei alzatasi prima di lui. Chi non aveva nessuno, doveva pensarci la sera a cucinare in più per il giorno dopo. L’apertura del coperchio era solenne. Saliva al cielo un profumo che si univa a quello degli altri. “Odore gradito”, si legge nella scrittura sacra di quello fumante dagli altari, dritto nelle narici della divinità. Quello che saliva feriale a mezzogiorno da una tavolata di sconnesse palanche, le assi di abete di 4,5 centimetri di spessore, era altrettanto sacro. Riempiva i corpi svuotati di forza lavoro, riforniva per il secondo tempo».
I primi modelli sono d’alluminio e capita che per l’usura si buchino. L’acqua dello scaldavivande penetra all’interno, nella pasta o nella minestra. C’è anche una versione a due vaschette, di forma ovale: quella più alta per la minestra o la pasta, quella più bassa per il secondo e il contorno.
Capita, nella confusione e anche un po’ per la fame, che qualche gavetta sparisca o venga scambiata con quella di qualcun altro: «Essendo tutte uguali, gli operai incidono sull’acciaio del coperchio il nome e il cognome o solo le iniziali, altri personalizzano il manico, rivestendolo con un filo metallico colorato o contrassegnandolo con una piccola medaglietta. Gli operai la infilano in una borsa di finta pelle scura, insieme con un pezzo di pane, un frutto, un fiaschetto di vino» (dal saggio “Operai, fabbriche e cibo” di Davide Porporato e Gianpaolo Fassino).
Anche a Marcovaldo un giorno capita di scambiare il suo misero pasto – salsiccia con le rape – con il ricco pranzo di un bambino, a base di fritto di cervella. Perché il contenuto della schiscetta rivela meglio di una carta d’identità se sei ricco o sei povero e da dove vieni: polenta o minestra di legumi e verdure se sei nato al Nord, altrimenti maccheroni, frittata di pasta o orecchiette. E c’è chi può permettersi solo pane e pomodoro. Grazie alla gavetta viene sdoganata al Nord la dieta mediterranea, propagandata involontariamente dagli emigrati siciliani, calabresi e pugliesi.
Nel 1970, una ragazza «preoccupata di non essere all’altezza del suo ruolo di moglie» chiede consigli a un quotidiano su quali cibi «gustosi, sostanziosi e di facile conservazione» riempire il barachin del marito. L’esperto raccomanda «un lunch leggero: brodo ristretto di carne o crema di legumi o ortaggi o pastina glutinata in brodo di carne o di verdura; frittata o carne arrosto o prosciutto cotto o formaggio con pane come fonte glicidica, fornitrice di energia, frutta fresca o cotta o zabaione, un bicchiere di vino» (da “Saper spendere bene” de La Stampa, 1970).
Ma gli Anni Settanta segnano la fine di un’epoca. Nelle grandi fabbriche del Nord ci si batte per ottenere il diritto alla pausa pranzo. Una fotografia in bianco e nero, scattata durante uno sciopero del 1973, documenta il clima di quegli anni: «Alla Girola siamo stanchi di mangiare nella gavetta». «Alla Girola mensa per i capi e 21 cani». Gli unici che se la passano abbastanza bene rispetto alla media sono gli operai delle Officine Breda che già negli anni Venti mangiano seduti in mensa.
Proteste sindacali per il diritto alla mensa
Un operaio di Mirafiori racconta: «Abbiamo solo mezz’ora per mangiare, compreso il tempo per andare dal posto di lavoro al refettorio e ritornare. Bisogna sbrigarsela in 10-15 minuti. Questo vuol dire mangiare pochissimo e con disgusto. (…) Quando si ritorna sul posto di lavoro si trova la linea già in marcia» (da Lotta Continua, 21 febbraio 1970). Il modello produttivo è ancora quello taylorista che vorrebbe eliminare ogni genere di pausa e che ispira a Charlie Chaplin la critica feroce di “Tempi moderni” (1936): nella fabbrica dove lavora sta per essere introdotto un sistema automatizzato in grado di sfamare gli operai direttamente alla catena di montaggio ma il tentativo fallisce e la macchina rovescia addosso al povero Chaplin la minestra, nutrendolo solo di bulloni.
Ora che i pasti scaldati al microonde e consumati in solitudine alla scrivania hanno sostituito le mense operaie e le tavole calde, la memoria del pasto condiviso è affidata ai musei. A Columbus, in Georgia, il Lunchbox Museum conta un migliaio di portapranzo, soprattutto modelli destinati ai bambini. Allen Woodall ha raccolto questi cimeli d’epoca in una sorta di capsula del tempo al profumo di tramezzini al tonno e burro d’arachidi.
Kit per il pranzo ispirato al lancio del satellite Sputnik. King Seeley Thermos, 1958 © the National Museum of American History
Negli Stati Uniti i primi contenitori per il pranzo da asporto, simili a cestini da picnic in metallo, risalgono ai primi anni del Novecento (qui una selezione curata dal National museum of American history). Nel 1911 l’American Thermos Bottle Company crea il primo kit che comprende anche un thermos. I dirigenti di una società di Nashville chiamata Aladdin si rendono conto presto che personalizzando quelle scatolette di latta con decalcomanie degli idoli di bambini e adolescenti avrebbero potuto venderne molte di più. Il primo personaggio a comparire su queste scatole fu Topolino nel 1935, cui seguirono tutti gli altri: Charlie Brown, Spider-Man, Capitan America, La famiglia Addams, i Beatles…
Al culmine della loro popolarità, tra il 1950 e il 1970, negli Stati Uniti vengono venduti più di 120 milioni di contenitori per il pranzo in acciaio e vinile. Il metallo continuò a dominare la scena delle scatole per il pranzo fino agli anni Ottanta, quando la plastica stampata, meno costosa da produrre, prese il sopravvento. Ma fu soprattutto a causa delle proteste di un gruppo di mamme della Florida, preoccupate dal fatto che il metallo avrebbe potuto ferire i loro bambini, che la produzione venne interrotta. Così che, nel 1985, Rambo segnò la fine dell’era del lunchbox in metallo.
Lunchbox dalla forma simile a un pan bauletto, prodotto da Aladdin nel 1968 © the National Museum of American History
Fonte: Linkiesta, Gastonomika, Claudia Saracco, 29.03.2021