Il fatto che anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia messo nero su bianco il fatto che esiste una correlazione tra il consumo di carne rossa (e ancor più di carne lavorata) e alcuni tipi di cancro conferma quanto molti scienziati, medici ed epidemiologi affermavano da tempo.
Non si può certo dire, infatti, che lo studio uscito in queste ore e ampiamente anticipato nei giorni scorsi abbia l’effetto di un fulmine a ciel sereno. Ciò che colpisce, semmai, è che da oggi non si torna più indietro, non ci si può più immaginare ripensamenti, cambi di rotta o nette fratture nella comunità scientifica: la carne rossa è probabilmente cancerogena; la carne conservata (wurstel, salsicce, carne in scatola ecc.) è cancerogena.
Ma possiamo davvero accontentarci di questa semplificazione? Ovviamente no, ed è la stessa OMS a sottolinearlo chiaramente: è la quantità a fare la differenza, qui sta il centro della questione. Bisogna stare attenti, perché lanciare allarmismi “un tanto al chilo” è insensato oltre che stupido.
Non per nulla molte organizzazioni nel mondo, tra cui Slow Food, teorizzano da anni che la diminuzione dei consumi di carne è una strada obbligata, non solo per la salute umana ma anche per quella delle risorse naturali che per la sua produzione vengono utilizzate (o meglio sovrautilizzate).
E questo va a braccetto con la qualità della carne che finisce sulle nostre tavole. Qualità in termini di sicurezza e qualità in termini di impatto ambientale.
È evidente che produrre carne per un mondo in continua crescita e in cui i consumi sono in costante escalation spinge alla ricerca di soluzioni rapide, di scorciatoie che consentano una produzione veloce, standardizzata e meccanizzata. Ed ecco allora gli allevamenti da centinaia o addirittura migliaia di capi (parlando ovviamente di bovini, perché per ciò che riguarda il pollame si arriva tranquillamente a decine di migliaia), in cui la vicinanza degli animali e gli spazi angusti obbligano a un utilizzo massiccio di antibiotici per limitare l’insorgenza di malattie, dove si rende necessaria l’amputazione di corna, becchi o code per evitare che gli animali si feriscano, dove gli escrementi sono talmente tanti che non è pensabile utilizzarli come concimi (anche perché non ci sono prati da concimare, gli animali vivono reclusi in gabbie e stalle il più piccole possibile per ottimizzare gli spazi), dove l’alimentazione dei capi è ricca di grassi per favorire una crescita rapida e costante. Tutto questo è figlio di un modo sbagliato di mangiare carne.
È necessario diminuire i consumi e diversificare le nostre diete, riscoprendo quelle proteine di origine vegetale che possono facilmente e molto efficacemente sostituire quelle animali. Non solo, ma dobbiamo privilegiare quei prodotti che meno si prestano all’utilizzo massiccio di additivi, conservanti, edulcoranti, coloranti. Perché oggi queste sostanze fanno a tutti gli effetti parte integrante delle nostre diete, spesso a nostra insaputa o per nostra disattenzione o noncuranza.
In questo senso è necessario che cresca la sensibilità intorno al fatto che scegliere ciò che si mette in tavola non è una scelta indifferente e soprattutto è una scelta che incide sulla qualità della vita in primis nostra ma non solo. Da questo punto di vista lo studio redatto dall’OMS può avere una grande forza di impatto sulle persone, che finalmente trovano la più alta autorità in termini di salute pubblica a esprimersi così chiaramente su un prodotto di consumo così esteso e diffuso.
Consumare meno carne fa bene alla nostra salute, fa bene all’ambiente e fa bene gli animali. Niente isterie però, altrimenti saremo nuovamente fuori strada e nuovamente saremo incapaci di cogliere una grande opportunità di educare noi stessi a mangiare meglio e, più in generale, a consumare meglio.
Lo studio che è uscito ieri deve porgerci il destro per affermare ancora una volta che sobrietà, diversificazione e consapevolezza devono essere il nostro faro per approcciare il cibo in maniera matura, informata e rispettosa. Altrimenti staremo solo correndo dietro all’ultima tempesta in un bicchiere d’acqua.
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Carlo Petrini
c.petrini@slowfood.it
Da La Repubblica del 27 ottobre 2015