A tu per tu con l’ultima generazione della storica cantina siciliana, bandiera del Nero d’Avola e della sostenibilità: “Giovani, state lontani dalle mode, mai tradire la geografia del vino per creare dei prodotti omologati”
(foto @ansa)
Non si può parlare di vino in Sicilia senza passare sotto il vessillo dei Tasca D’Almerita. La storia d’amore fra la Sicilia e questa famiglia nasce nel 1830, nella Tenuta Regaleali. Alberto, insieme ai fratelli, è il prosecutore di questa storia. Il nonno creò un vino rosso divenuto iconico. Il padre Lucio lottò con le contraddizioni di una terra gattopardiana, riuscendo nell’affermazione del Nero D’Avola e dei primi Cabernet Sauvignon e Chardonnay siciliani. Oggi Alberto Tasca, CEO dell’azienda dal 2001, scommette tutto sulla sostenibilità e impiega, solo in campagna, oltre 170 persone di cui moltissimi giovani.
La Tenuta di Capofaro
Alberto Tasca, quando si guarda indietro e ricorda i suoi inizi da giovane cosa ricorda? Sentiva la responsabilità di un cognome importante o non ha tanto badato a queste riflessioni?
“Quando ho iniziato a prendere in mano l’azienda e sono passato ad un ruolo di primo piano, mi sono sentito come il custode di un DNA. Ho dovuto studiarlo a fondo per avere la cura di maneggiarlo, ma sono stato agevolato in questo perché ho avuto un nonno molto ordinato. Da qualche tempo io e mio fratello abbiamo ripreso in mano tutto il carteggio, una vera e propria biblioteca di saperi, riferimenti storici e manoscritti tramandati da otto generazioni. Ne viene fuori il ritratto di un’azienda da sempre orientata all’innovazione, anche in tempi non sospetti. Tecniche agricole, incroci, sperimentazioni, la passione è stata il nostro primo motore, insieme alla curiosità e alle sfide. Pensi che il primo lago artificiale collinare della Sicilia è stato fatto a Regaleali”.
Suo nonno è spesso presente nei suoi racconti e non potrebbe essere diversamente. Da giovane è stato un vero precursore, come suo padre e come del resto anche lei. Quali valori le sono stati tramandati da questi “giovani” pionieri per gestire oggi l’azienda di domani?
“Piedi sulla terra, mani nella vigna e occhi sempre rivolti all’innovazione e alla sperimentazione. Sono cresciuto con l’idea di un metodo per gestire le aziende che è quello della conduzione sostenibile e non parlo delle più note ‘best practies’, ma della loro gestione con dei veri e propri indicatori sugli impatti a 360°, non solo sul reddito o sui risultati qualitativi. Rispetto al passato oggi siamo messi meglio. Ci sono più informazioni che se ben gestite creano un processo decisionale più semplice. È indubbio che la competizione è tanta. “Tutti siamo utili e nessuno è indispensabile” o “La competizione stuzzica il talento”? Mi creda, il nostro è un settore stranissimo, non esistono quote di mercato, siamo tantissimi e siamo tutti sostituibili. Oggi per affermarti devi farle tutte bene. Le nuove leve hanno delle sfide davvero più complesse, ma anche più complete se vogliamo, consapevoli di una ricchezza di strumenti e di informazioni che le vecchie generazioni non avevano. La mia esperienza mi ha insegnato che quando c’è una storia dentro le aziende, non dico che si guidano da sole, ma c’è una strada tracciata e questa è piena d’energia. Sono stato fortunato in questo”.
Ai giovani che s’immaginano vigneron, ma non hanno questa fortuna, cosa consiglia?
(Ride) “Di fare un mestiere che li faccia guadagnare un sacco di soldi e poi dedicarsi come hobby al vino. Ah, così? Senza pietà? Beh, è innegabile l’infinità difficoltà di questo lavoro per chi ha già scritto enciclopedie, figuriamoci per chi inizia da una pagina bianca. Lavorare, lavorare, lavorare e acquisire know how. L’amore per la terra non basta, in parole semplici meno dato dal senso pratico e più dallo studio e dalle competenze. Tenere sempre a mente la sostenibilità e intenderla come una multi disciplina e ispirarsi al metodo giapponese ‘Kaizen’, cioè migliorare su tutto e il più possibile. E poi fondamentale che qualcuno che se ne accorga, bisogna seguire una strada diversa rispetto agli altri, anche perché, lo dico chiaramente, la strada per chi ambisce a fare questo lavoro e parte da zero, è davvero tutta in salita. Se non si ha una base, non dico che è impossibile, ma molto, molto difficile. Servono tanti investimenti e i rientri, laddove ci fossero, sono pochissimi inizialmente e arrivano comunque dopo sei, sette anni”.
(foto @ansa)
Severo, ma giusto. Fare rete potrebbe essere ancora una buona pratica o è stata superata da logiche individualistiche?
“Personalmente lo ritengo fondamentale. Quando iniziai a lavorare, nel 1993, c’era una ricerca di mercato, la prima per altro, fatta dal famoso sociologo Giampaolo Fabris, sul rapporto fra produzione agricola e consumatore e questa ricerca evidenziò che la Sicilia aveva la peggiore reputazione di vino al mondo, non aveva insomma un buon percepito, contrariamente a tutto il resto del reparto agricolo che andava alla grande, dalle arance, ai pomodori passando naturalmente per l’olio. La causa di questo era per lo più strategica. In Sicilia si era sempre avuta una grande produzione di vino sfuso perché, facendo vino con buona struttura e buoni gradi alcolici, il nostro era utilizzato per lo più per tagliare i vini di grandi regioni non così fortunate dal punto di vista agricolo. Da quel momento in poi, con la generazione di mio padre, la Sicilia ha iniziato a fare squadra, fondando il primo Assovini Sicilia che poi è riuscito a costruire il consorzio di una doc regionale e adesso durante la pandemia abbiamo creato SOStain Sicilia, il primo progetto che promuove lo sviluppo etico e sostenibile nel settore vitivinicolo siciliano, accompagnando e indirizzando le cantine verso la misurazione costante e la riduzione dell’impatto che le pratiche agricole hanno sul territorio”.
Possiamo dire quindi di aver superato quelle logiche gattopardiane che ci vogliono battitori singoli?
“Diciamo che quantomeno ci stiamo provando. Ci riuniamo tutti un paio di volte di volte a settimana per il bene comune e lo facciamo a gratis e tutte le governance vengono gestite senza creare conflitti d’interesse”.
Alberto Tasca, in conclusione, quali le sfide che i giovani dovranno affrontare e a cosa devono stare attenti?
“Come detto lavorare sulle competenze e fare rete lo ritengo fondamentale per proseguire il lavoro sulla sostenibilità. È l’unica arma che abbiamo per preservarci. Dovrebbero invece stare lontani dalle mode, non si deve tradire la geografia del vino per crearne di “omologati”. Ho imparato tantissimo dal biologico e dal biodinamico, ma trovo assurdo che se ne faccia una moda”. Fonte: la Repubblica, IL GUSTO, Francesco Seminara, 02.05.2022