Stop alla monocoltura, abbandonare la minerale, investire sulla desalinizzazione: è la ricetta di Norbert Niederkofler, l’unico chef in Italia ad aver ricevuto una Stella Verde Michelin, per mitigare le conseguenze della crisi idrica all’interno del suo settore
Unsplash
«Acqua» è, senza ombra di dubbio, una delle parole più scritte, cercate e lette degli ultimi mesi. E questo perché in Italia non ce n’è quasi più. L’acqua è un elemento chiave per qualunque attività, umana e non, dall’industria, all’uso domestico fino all’alta cucina: è il bene per cui dobbiamo metterci in testa di lottare da qui in avanti.
In Italia siamo viziati: di acqua potabile ne abbiamo in abbondanza (ma ne sprechiamo in enormi quantità a causa dell’inefficienza della nostra rete idrica), tant’è la usiamo anche per attività in cui non sarebbe essenziale. Nonostante il 99% degli italiani abbia accesso all’acqua potabile (dati diffusi dall’Istituto superiore della sanità), siamo il terzo Paese al mondo per consumo di acqua minerale dietro al Messico e alla Thailandia.
In poche parole l’acqua, che è un bene che potremmo avere tutti a chilometro zero, scegliamo di consumarla dentro a contenitori di plastica. Questo si traduce in un dato molto significativo: ogni minuto vengono acquistate circa 1 milione di bottiglie di plastica, ma ne viene riciclato meno del 10%. Se continuiamo così, nel 2050 nei nostri oceani ci saranno più rifiuti plastici che pesci.
Questo, in un eterno cane che si morde la coda, comporta la produzione di emissioni e rifiuti in misura sempre crescente, tanto che il tre stelle Michelin Norbert Niederkofler ad AlpiNN – ristorante che ha aperto insieme al suo socio di Mo-Food Paolo Ferretti dentro l’edificio del Museo della fotografia di montagna Lumen e guidato da Fabio Curreli – ha scelto di non vendere, né utilizzare, acqua in bottiglia.
Niederkofler – grazie al suo lavoro nel ristorante dove è chef resident, il St. Hubertus di San Cassiano – è riuscito a tingere di verde una delle tre stelle Michelin (riconoscimento che valuta l’impegno del ristorante in merito alla sostenibilità nei termini della valorizzazione del territorio, del contrasto agli sprechi alimentari e dell’utilizzo della plastica). Lo chef altoatesino classe 1961 è fermamente convinto della necessità di invertire la rotta per salvaguardare risorse e la biodiversità.
«Io ho sessant’anni, a cento non ci arrivo e le conseguenze estreme di come stiamo distruggendo il mondo non le vedrò, ma i miei figli sì. La vedi quella montagna là?» lo chef indica un punto oltre le vetrate del Lumen, che si affacciano su tutto il comprensorio di Plan de Corones, «quello è il monte Magro, nella valle Aurina, quando ero ragazzo per arrivare al rifugio che c’è in cima avevi due strade: o farti quaranta minuti buoni di ghiacciaio, oppure fare una ferrata. Ecco, lo hanno dovuto spostare più in basso. Quando facevo le gare di sci d’estate mi allenavo sulla Marmolada e sullo Stelvio. Le hai viste le foto di come è ridotto quest’anno?».
Niederkofler è uno che la coscienza ambientale se l’è costruita viaggiando e sperimentando: «Nel periodo in cui ho lavorato a New York, ho fatto soldi a palate: guadagnavo 1.000 dollari a settimana quando il dollaro era fortissimo. Quando me ne sono andato ho comprato un van e ho girato tutto il Nord America. Non è mai stata mia intenzione quella di tornare a lavorare in Alto Adige, ma poi ho capito il valore di un territorio ricco di risorse. Chiedevo alle persone cosa si aspettassero di trovare in un mio ristorante qui, e quelle mi rispondevano: vedere la montagna, stare all’aria aperta e mangiare buon cibo. Ho pensato di aver sbagliato tutto: per il tipo di cucina che faccio io, il meglio del meglio è a New York. Così per un anno non ho lavorato e ho scritto “Cook the mountain”. E da lì sono partito».
Secondo Niederkofler, «se noi andiamo avanti con la monocoltura avremo ancora 40 o 50 raccolti davanti e poi basta. Chi fa ristorazione dovrebbe capire l’importanza di salvaguardare le risorse, per questo ho rivoluzionato la mia cucina dal profondo, partendo dal St. Hubertus e poi applicando la filosofia di Cook the Mountain anche qui all’AlpiNN, insieme a Fabio. Quando ho presentato il libro, tutti hanno pensato che fossi impazzito: al St. Hubertus ho tolto tutta la carne, il foie gras, il pesce di mare, l’olio di oliva, gli agrumi, e tutta la frutta e la verdura proveniente da serre.
Questo si traduce nel fatto che in inverno è necessario pensare alla produzione estiva e d’estate all’inverno successivo e così via. Non abbiamo inventato niente, prima si faceva così: nel caso dell’alta cucina certamente è un tutto po’ più complesso, ti devi inventare un po’ di cose, ad esempio come ricavare la componente acida dei piatti, ma fattibile. Così abbiamo iniziato a fare la fermentazione, e lì di acidità ne tiri fuori quanta ne vuoi, abbiamo iniziato a utilizzare delle bacche che in cucina non si usavano più, ci siamo messi d’impegno».
Nonostante le perplessità iniziali, è andata piuttosto bene: «È stata una scommessa: a Natale del 2017, quando avevamo appena iniziato a impostare il lavoro secondo la nuova filosofia, ho ricevuto una mail dall’ex direttore della Michelin in cui venivo avvisato di aver preso una strada molto rischiosa. Quel giorno la feci leggere solo a mia moglie, non dissi nulla ai ragazzi in cucina e poi, passato il periodo di Natale, radunai i più importanti della squadra intorno a una tavolo e consegnai loro la mail chiedendo di andare a casa, pensarci, non parlare tra loro e l’indomani di decidere. La mattina dopo trovai diverse mail strappate sul tavolo: è così che siamo arrivati ad essere il primo ristorante al mondo ad avere tre stelle con un concetto completamente sostenibile. Siamo in 120 ad avere tre stelle Michelin, ma solo in tre ne abbiamo una verde, e in Italia sono il solo».
L’acqua gioca un ruolo centrale nella filosofia di Cook the Mountain e di Niederkofler, che ha preso la decisione, per AlpiNN, di far diventare il ristorante una “bottle free zone”. Niente bottiglie, né in plastica né in vetro. Dalla sua apertura nel 2018 infatti il ristorante ha avviato una partnership con BWT, azienda tedesca con la mission di rendere l’acqua disponibile per tutti “a chilometro zero” pensando sia alla salute delle persone che al rispetto delle risorse idriche, che sono limitate.
L’acqua disponibile sul pianeta è liquida al 98,28%, ma solo lo 0,78% di questa è potabile. Grazie al processo di ricerca e sviluppo, BWT ha sviluppato e sta continuando a sviluppare soluzioni per trasformare l’acqua salata (che rappresenta il 97,5% dei circa 1,38 miliardi di chilometri cubi di acqua presenti sulla terra), l’acqua di superficie e quella sotterranea in acqua potabile o acqua demineralizzata e di processo.
L’obiettivo – riassunto nel claim «Change the World, sip by sip», cambia il mondo un sorso alla volta – è quello di ottimizzare le risorse idriche, evitare la produzione di rifiuti, in primo luogo plastici, e prendersi cura della salute delle persone. Secondo quanto stimato dalle Nazioni Unite, infatti, nel 2050 saremo in 9.7 miliardi su questa terra, e la metà di noi vivrà in zone dove l’acqua è una risorsa scarsa già adesso: India, Nigeria, Pakistan, Tanzania, Congo e Indonesia solo per citarne alcune. Circa il 70% dell’acqua disponibile viene oggi impiegata nel settore agricolo: con l’aumento della popolazione, e quindi del fabbisogno di alimenti, l’acqua che abbiamo non sarà più sufficiente per irrigare e abbeverare tutti, a meno che appunto non si investa in sistemi sicuri di depurazione.
L’acqua è alla base di tutte le nostre attività primarie più importanti: «Senza acqua tu non puoi cucinare, non puoi coltivare, è alla base di tutto. Il mondo è fatto per due terzi da acqua, ma è salata, un quarto di questo terzo è acqua intrappolata nella montagna, sono i ghiacciai, che però si stanno riducendo sempre più, quindi non potremo contare su quell’acqua ancora a lungo. Ecco perché investire in processi sicuri ed efficienti di desalinizzazione è importante. La siccità mette in ginocchio qualunque settore, anche quello dell’alta ristorazione: come le curi le verdure senza acqua? Una delle mie personali crociate è quella contro la monocoltura: un terreno coltivato sempre con la stessa pianta ti dà risultati per tre, quattro anni al massimo, poi muore, a meno che tu non usi moltissima acqua per renderlo ancora fertile».
Veniamo interrotti dal cameriere che porta il primo: sono dei fusilloni con ribes e aceto di bosco. «Vedi» – riprende lo chef – qui l’acidità di cui ti parlavo prima la dà il ribes: noi lavoriamo con più di 400 tipi di erbette, verdure e funghi tutti coltivati con i vecchi sistemi volti a preservare e favorire la biodiversità». Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Ilaria Chiavacci, 30.07.2022