Una serata che andrà dritta, e con diritto, negli annali della Condotta. Nell’olimpo delle occasioni di eccellenza assoluta, nel novero delle proposte più che riuscite, anche in virtù di un rapporto qualità prezzo difficilmente superabile.
Accolti dalla squisita cordialità dei fratelli Frosio, siamo impressionati dall’infilata di bottiglie che fa bella mostra di sé e mette tutti in fibrillazione.
Fuori programma ci vien servito un sapido timorasso del 2004: è il Pitasso 04 in magnum di Mariotto, il viticultore sarà poi dei nostri a tavola. Alla spicciolata i tavoli si riempiono in ogni ordine di posti e, finalmente, si aprono le danze.
Piero Palmucci, decano dei viticoltori in quel di Montalcino, con compassato savoir faire racconta della sua azienda che ha sede in una felicissima porzione sui poggi che danno vita ad uno dei vini più blasonati del mondo. Da oltre vent’anni vengono lavorati gli oltre 30 ettari di proprietà, 12 dei quali vitati, naturalmente ed esclusivamente a sangiovese. Sangiovese che diventa Brunello solo nelle annate in cui le uve siano capaci di esprimere l’eccellenza, nel 2002 e 2003, valga come esempio, dalla Cantina non è uscito che il Rosso di Montalcino.
Il resto degli appezzamenti è dedicato alla coltura dell’olivo, con risultati molto soddisfacenti.
Nonostante il disciplinare consenta fino a 70 q.li per ettaro, in azienda si punta a rimanere entro i 30-32 q.li attraverso una puntuale selezione delle uve che si sostanzia in 3 passaggi differenti. Le bassissime rese hanno come immancabile risvolto qualità decisamente sopra la media, e costi conseguentemente elevati.
Il calore e la convinzione trasmessi da Palmucci meglio non potevano introdurre il Rosso di Montalcino 2006, seguito a breve dall’annata 2005. Al naso si svela immediatamente la coltivazione in regime bio delle uve, e la identica paternità dei vini. Svanito in fretta quel lieve sentore distintivo si apre l’armonica freschezza e l’invito alla pronta beva del primo, più restio ad offrirsi, il secondo richiede un tempo più lungo di attesa perché sviluppi e comunichi la sua natura comunque più cupa e ritrosa.
Dalla cucina esce una delizia rara: animelle su radicchio rosso e noci tostate, piatto molto ben eseguito a cui succedono squisite pappardelle al ragout di lepre, bagna in cui la nostra ‘agente all’Havana’ ha messo lo zampino contribuendo al felice risultato. Ottima impressione e occhi sgranati ovunque si rivolga lo sguardo. Ma il meglio deve ancora arrivare, quando giunge nel bicchiere il Brunello 2004 cala il silenzio in sala, nasi e meningi sono assorbiti da effluvi di straordinaria complessità, in bocca rapiscono bontà e raffinatezza.
Mentre viene servito un morbidissimo filetto di cervo con purea di castagne e composta di mirtilli rossi, ulteriore testimone della serata di particolare vena di Paolo, Camillo non è da meno e si prepara a sfoderare dal suo cilindro una sequenza micidiale di nettare degli dei: un Brunello 1999 che colpisce al cuore, uno straordinario 1998: siamo oltre il vino, non è difficile accomunare i due splendidi rossi ai migliori liquori da meditazione. Tra l’altro accompagnano a meraviglia lo zabaione al Brunello, la ‘rösömada’ della nostra infanzia, che chiude con una graditissima nota di classe un menù da ricordare. Siamo al deliquio. Non è finita, arriva un 1997 che testimonia, forse, un’annata non all’altezza delle 2 precedenti. Comunque la selva di bicchieri tra cui dobbiamo destreggiarci invita a ripercorrere i sapori di una serata memorabile.
Che dire sulla complementarietà di piatti e vini? Basta l’esauriente commento di Piero Palmucci: perfetta!
Grandi vini per una grande cucina. O viceversa, se preferite.
(Lorenzo)