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Set 30 2024

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“SÍ AL PIACERE DEL CIBO, NO AL CONSUMO SFRENATO. ABBIAMO DEI DOVERI NEI CONFRONTI DELLA TERRA”

Il fondatore di Slow Food parla di nutrimento e il piacere del cibo, che devono essere diritto per tutti; del paradosso della società che mette gli ambientalisti contro gli agricoltori; delle ingiustizie della catena produttiva che vede solo il prezzo più basso

 “Slow Food non rinuncia al suo sottotitolo storico: movimento internazionale per la tutela e il diritto al piacere. Perché non è crapula, non è consumo sfrenato. Il diritto al piacere è coniugato con conoscenza e responsabilità. Ed è questo che rende il mondo della gastronomia davvero interessante”. Carlin Petrini lo dice chiaro presentando Terra Madre Salone del Gusto. Ed è una sintesi della riflessione sull’uomo al centro della dimensione sociale e politica del cibo oggi. Una riflessione che è anche un bilancio degli ultimi vent’anni del movimento – questo è un anno di ventennali da celebrare – e l’occasione di definire i pilastri di una nuova coscienza alimentare.

Nel 2004 nasceva l’Università di Scienze gastronomiche, una facoltà innovativa, con uno sguardo internazionale, per offrire competenze larghe con l’umiltà di capire che c’è una tradizione gastronomica che va ben oltre Italia e Francia. Lo stesso anno viene lanciata Terra Madre. Oggi Slow Food è impegnata con una petizione popolare a far fare alla conoscenza un ulteriore passo avanti, spingendo perché l’educazione alimentare sia inserita in tutte le scuole partendo dai più piccoli. È la consapevolezza di un nuovo salto culturale che serve per affrontare le sfide della contemporaneità?

“Sicuramente, di questo c’è bisogno. E riparto dal 2004 perché è stato davvero un anno di rottura. L’impostazione originale di Slow Food si muoveva in un contesto di gastronomia classica, quindi eurocentrico. Il movimento, già Arcigola, era stato fondato a Parigi, nel 1989, nel bicentenario della Rivoluzione francese che di fatto comporta la nascita della ristorazione borghese. Ma le vere radici dei saperi gastronomici sono sempre dentro situazioni di povertà dalle quali nascono piatti straordinari con quel poco che c’è. Così, ecco l’idea dell’Università di Scienze gastronomiche. Nell’intuizione fondativa c’è il principio che il gastronomo francese Brillat-Savarin sintetizzò in maniera sublime nel suo libro “La fisiologia del gusto” del 1825: il concetto di multidisciplinarietà. Dall’altra ci convincemmo che questa visione doveva accompagnarsi a un’attenzione totale al patrimonio alimentare. Ecco allora Terra Madre, con al centro le Comunità del cibo che spalancano le porte alla dimensione internazionale. Venti anni dopo, a tutto ciò si è aggiunta la rete degli ex allievi dell’Università, quasi 4000 provenienti da 100 nazioni. Una diversità che è la ricchezza di Slow Food. E la centralità del cibo, che allora ponemmo come punto chiave, è oggi più che mai uno dei discrimini della politica contemporanea. Da qui si apre il tema educativo. Perché nella società contadina c’era un processo di trasmissione naturale, familiare, di saperi domestici che oggi si è perso e va ricostruito partendo dalle scuole. Da qui la nostra iniziativa. Ma abbiamo anche un altro progetto, che vi anticipo, per il prossimo anno. A fine 2025 sarà il bicentenario della Fisiologia del Gusto e il 3 febbraio 2026 quello della morte di Brillat-Savarin. Che pubblicò il libro senza firmarlo”.

Certo, era un magistrato, non riteneva adeguato parlare di un argomento poco culturale come era ritenuto il cibo.

“Esatto. Invece il successo del libro fu enorme, secondo, per vendite e traduzioni, solo alla Bibbia. La nostra idea è allora di celebrare a Parigi questi bicentenari seguendo l’itinerario di Savarin. Con due pilastri: da un lato riconoscendo la sua primogenitura del tema della multidisciplinarietà e dall’altra premendo sul concetto delle scienze gastronomiche come scienze di cui tutti i popoli hanno testimonianza e prova. Perché Savarin, a sua insaputa, ha legittimato l’eurocentrismo franco-italiano- occidentale, ma quattro secoli prima di Cristo la cucina cinese era già codificata in 8 grandi cucine regionali! Allora, tutti dobbiamo avere un’attenzione assoluta a questa biodiversità. Si pensi alla recente rivoluzione della cucina peruviana con gli chef Gaston Acurio prima e Virgilio Martinez poi, che arrivano proprio da Terra Madre. Io sono andato nella banlieue di Lima ad aprire la scuola di Acurio riservata ai contadini locali per farli diventare cuochi. Da tutto questo è nata un’identità di cucina peruviana che prima non c’era. Sotto la cenere ce ne sono tantissime altre, pensiamo solo a quelle africane o indiane. Questa è la prateria che la nuova gastronomia deve comprendere e raccontare, altrimenti serve a poco o niente”.

Da qui muove la responsabilità per ciascuno di noi, con differenti ruoli, di aiutare a costruire una cultura del cibo nuova e aperta.

“Sì, da qui l’esigenza che la società civile si attrezzi. Perché siamo sostanzialmente inadeguati a rispondere alle domande che ci pongono la politica e la politica culturale. Faccio un esempio. I produttori sono andati a Bruxelles con i trattori a protestare spiegando che lavorano sottocosto. Bene, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha subito messo da parte le politiche ambientali perché a suo dire, come pure del nostro governo, erano lesive di queste aziende. In realtà il problema è che non hanno remunerazione perché i produttori non fanno i prezzi, che sono invece determinati dal sistema distributivo, primo fra tutti la grande distribuzione. E sempre più anche dalle piattaforme digitali che si prendono anche il 20% delle vendite online. Mentre si contrappongono i contadini agli ambientalisti, la grande distribuzione pubblicizza offerte di prodotti agricoli a bassissimo costo che fanno da specchietto. È una situazione scioccante”.

Dunque si può produrre in maniera sostenibile per la natura e sostenibile anche da un punto di vista economico. Ma oggi siamo davanti a un cortocircuito politico e comunicativo. Come invertire questa tendenza?

“Si può e si deve attraverso la comunicazione e l’educazione. Non vedo altre strade. Siamo dentro una mutazione ambientale di proporzioni mai viste. E il cambiamento climatico ha nel sistema alimentare una delle prime cause. La produzione di cibo è responsabile del 37% della CO2 emessa. È possibile fermare questa deriva senza avere coscienza di ciò? Continuando con una dimensione, specialmente di tipo gastronomico, che non raccolga la complessità? Nel mondo della gastronomia ci troviamo di fronte a una storica dualità sintetizzabile attraverso due personaggi come Brillat-Savarin e Grimod de la Reynière. Il primo ha affrontato il tema dal punto di vista quasi filosofico; il secondo ha fatto un lavoro straordinario con la conoscenza specifica dei prodotti. Ecco questi due mondi si parlano poco, per cui si tende a vedere o solo l’aspetto gourmand o solo l’aspetto politico ambientalista, mentre sono inscindibili. È tanto vero che Slow Food, malgrado questi cambiamenti, non rinuncia a dichiarare il diritto al piacere. Non dobbiamo perderlo ma coniugarlo con conoscenza e responsabilità”.

Cambiare il paradigma intorno al cibo, spostare l’attenzione sul prezzo minimo che i prodotti devono avere, perché dietro il prezzo c’è la tenuta sociale di un sistema, c’è il tema della manodopera clandestina e molto altro ancora. Come singoli cosa possiamo fare?

“Senza esasperazioni, due atteggiamenti potentissimi sono l’attenzione alla stagionalità e alla produzione locale. Ma ciò che manca davvero è la corretta informazione sui processi produttivi. Da dove arriva la materia prima che ho nel piatto? Qui c’è un grande lavoro da fare, attraverso etichette leggibili, ma anche con un’educazione che oggi i cittadini non hanno. Educazione che deve partire dalle scuole di primo grado. Penso all’esperienza degli orti didattici, che in Italia sono ormai un migliaio, luoghi dove nonni e nipoti vanno insieme e i bambini toccano con mano la stagionalità dei prodotti”.

Lei riconosce il valore dei grandi chef, del loro ruolo di ambasciatori di un territorio. Ma spesso l’alta cucina è liquidata come elitaria e non conciliabile con i contadini di Terra Madre e le comunità del cibo. Si possono tenere insieme questi due mondi?

“Certo, sono sfaccettature della stessa famiglia. Però non possiamo nascondere due cose fondamentali. La prima è una questione di genere: non è possibile che l’alta cucina sia per il 95% rappresentata da maschi, che non ci sia un riconoscimento delle donne, del ruolo storico delle donne come pilastro fondativo della gastronomia. Perché quando bisognava pensare a garantire il cibo e la trasmissione dell’alimentazione le donne in ogni angolo del mondo hanno fatto dei capolavori. Allo stesso tempo ci sono questioni che non funzionano, penso a troppi atteggiamenti tranchant per cui o sei un innovatore o sei un tradizionalista. Questa dualità non esiste. Perché, una straordinaria innovazione è una tradizione ben fatta. È un rapporto dialettico dentro il nuovo campo in cui ci muoviamo che è quello del dialogo e della condivisione”.   Fonte; IL GUSTO. Leonora Cozzella, 27.09.2024

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