Siamo in Alta Val Brembana, nel bergamasco. Qui RistOrobie, locale premiato da Slow Food con la Chiocciola, propone una visione più briosa e contemporanea della cucina tradizionale
L’ansia del fare ristorazione in montagna ha una sua peculiarità. Varia con il variare del tempo, che ai Piani dell’Avaro cambia di continuo. Siamo sulle Orobie, in Alta Val Brembana, a 1700 metri di altezza, le Alpi bergamasche dove un ristorante tutto familiare e a conduzione femminile lavora con il sole, la neve, le piogge battenti che costringono i malgari a mettere in sicurezza le mandrie di vacche. Questo è infatti è luogo di formaggi pregiati, con diverse Dop – ben nove in tutta la Bergamasca, tanto da dare a queste zone l’appellativo di Cheese Valley. L’abitato più vicino è quello di Cusio, di dove è originaria Paola Rovelli che, insieme alla socia Miriam Gozzi, ha ridato vita, 20 anni fa, a un rifugio, trasformandolo in ristorante, RistOrobie.
Cucina di montagna tutta al femminile
La chiamano la “montagna facile”, perché si può arrivare direttamente in auto (pagando un ticket) e andare a pranzo o a cena. Oppure farsi stuzzicare la fame da passeggiate semplici, su e giù per i sentieri delle mucche. Volentieri si aspetta anche il buio, perché qui c’è uno dei cieli più stellati della Lombardia. RistOrobie – Chiocciola nella guida Osterie d’Italia Slow Food 2024 – è dunque un posto lontano ma non isolato, in un paesaggio che assomiglia a un pezzetto di Scozia. La proprietà delle mura è del comune di Cusio, perché c’era un albergo in disuso e una baita aperta solo nei mesi estivi. Le due donne, appassionate di cucina e ottime cuoche, pensano che possa essere una buona idea avere un locale loro.
A patto che, dice la proprietà pubblica, si occupino della pista di sci di fondo: “Ci siamo improvvisati un po’ tutti, noi due chef – racconta Paola – e i nostri mariti esperti di sport sulla neve. Hanno comunque fatto il corso per direttori di piste a Ponte di Legno”. Siamo lontani anni luce dalla sciccheria di Courmayeur o Cortina, ma anche da quella della più vicina Bormio in Valtellina. Più di una salamella con il panino e di una polenta taragna non ci si aspetta da queste parti: “E infatti per un po’ di tempo – continua Rovelli – il nostro menù non è andato oltre, dovevamo accontentare pullman di pensionati e anziani dei paesini a valle”. Proprio la vicinanza – e la facilità nell’arrivare – ai grandi centri come Bergamo e Milano, ha portato ai Piani dell’Avaro qualche cliente più esigente. E così il menù si è fatto più ricco. E anche più divertente: “Molto è cambiato – aggiunge Paola – anche perché le mie figlie Sara e Claudia sono entrate nel ristorante portando una visione più briosa e contemporanea della cucina tradizionale”.
I formaggi e la selvaggina etica, i sapori dell’Alta Val Brembana
Sara e Claudia Paleni, quando non lavorano, girano per ristoranti, amano mangiar bene e bere altrettanto. Sono entrambe sommelier e a loro si deve una carta dei vini piuttosto inusuale da questa parti: “Il 70 per cento è fatta con etichette della bergamasca – spiegano le due sorelle – un altro 20 è dedicato alla Valtellina e il resto lo riserviamo a Francia e Italia, solo piccoli produttori che conosciamo bene, sono i vini che piacciono a noi. Li mettiamo anche al bicchiere”. Per il resto tutta la famiglia si è dedicata in questi anni al rapporto con i produttori della zona per portare su, in baita, il meglio del cibo locale. Un po’ di formaggi arriva dagli alpeggiatori poco distanti come la Mascherpa del caseificio Giupponi, c’è il Taleggio della Valtaleggio, l’Agrì di Valtorta, una formaggetta cilindrica a pasta cruda e molle, alcuni caprini, il presidio Slow Food Stracchino all’antica – capra con aggiunta di panna – e anche forme di Formai de Mut – formaggio del monte – che stagionano anche fino a sei anni nelle cantine di famiglia.
Complessa e ricca è l’offerta della selvaggina che segue un tracciamento sicuro: “Quattro anni fa – racconta Claudia – abbiamo aderito al progetto “Selvatici e buoni” lanciato dalla Fondazione UNA – Uomo Natura Ambiente. Chi vi aderisce si impegna a comprare carne – cinghiale, cervo, capriolo – da macellai che fanno parte della stessa rete e che sono in contatto con cacciatori e guardie forestali che forniscono la filiera con la caccia di selezione, ma anche con capi investiti – ma non deceduti – e ritenuti idonei alla macellazione. Anche questo vuol dire fare economia locale e tutelare gli alpeggi dagli attacchi degli animali selvatici”.
I profumi delle erbe di montagna in cucina
RistOrobie ha puntato tanto anche sulle erbe, in particolare a tutte quelle che può raccogliere nei paraggi. A cominciare dal parùc, una sorta di spinacio selvatico, da mangiare nei ripieni o in zuppa e che cresce copioso nei prati intorno. Ci sono poi l’ortica, il tarassaco, la silene, la piantaggine e molte altre che la brigata ha imparato a conoscere grazie a qualche lezione di foraging. Con la Achillea ci fanno la maionese, mentre la raccolta di gemme di larice, pino mugo e abete serve per mettere da parte gli oli essenziali. La tradizione c’è ed è solida e porta i nomi dei “nosecc” – ripieno a base di carne, salamella, grana, uova e pane raffermo, impastato e avvolto in una foglia di verza e cotto in umido – e della “Zuppa del Carpen”, un primo piatto sostanzioso con pane di segale, porcini e formaggio di monte, bagnato con il brodo e cotto al forno: “Carpen dall’albero carpino, il soprannome dato agli abitanti di Cusio – spiega Paola – perché hanno la testa dura come il legno”. Fonte: la Repubblica, Francesca Ciancio, 10.09.2024