Le donne separano le canne di luppolo dalle foglie e le convogliano nella macchina raccoglitrice)
Non solo contadine, anche imprenditrici. Sono le Nati, tre generazioni di donne con le mani dentro la terra (foto di Isabella Franceschini/Parallelozero)
Mentre dal grande schermo divampa nel mondo la Barbiemania sotto forma di uno tsunami color rosa, eccovi in queste pagine un servizio fotografico interamente dedicato al pink-team delle sorelle Nati, premiata azienda agricola ravennate in cui tre generazioni di donne lavorano indefessamente alla coltivazione del luppolo nostrano.
Ma torniamo indietro nel tempo, agli albori del medioevo, quando le testimonianze ci riferiscono certo di molte donne impegnate nei campi, con la non marginale clausola che alle contadine era proibito possedere i terreni su cui si spezzavano la schiena. E anche alcuni secoli più tardi, nel Settecento dei Lumi, quando un pittore come Jean-Baptiste-Siméon Chardin ci consegna numerosi ritratti di donne-lavoratrici, sappiamo con certezza che esse si limitavano alla manodopera o alla manovalanza, raramente sconfinando nell’imprenditoria.
Ecco perché la foto più clamorosa (e al tempo stesso normalissima) di questo foto-mosaico corre il rischio di essere quella che immortala un leggendario veicolo Ape, destriero in genere sellato solo dai figli di Marte, qui viceversa tinto di rosa e carico magari di falci, badili, cesoie, vanghe e chissà cos’altro Sua Altezza il Luppolo richieda, rimarcando che stavolta le signore sono proprietarie a tutti gli effetti. Un’azienda agricola in rosa? Certo che sì, e ne parliamo a pochi mesi di distanza dalla nomina della prima donna nel consiglio nazionale dei periti agrari, con tutto che l’agricoltura aveva una sua dea, Demetra, e non un dio coi pantaloni.
Che poi, a dirla proprio tutta, andrebbe ricordato che il rosa si impose tre secoli fa come sfumatura riservata ai maschietti di alto lignaggio, partendo dal presupposto che per vestire i più piccoli occorresse una via di mezzo cromatica fra il bianco dei neonati e il rosso acceso che caratterizzava i guerrieri: il rosa, appunto, presagio di future battaglie vinte.
E tutto torna, perché in effetti di battaglie ne hanno vinte eccome, le sorelle Nati della Società Agricola Bellavista in località Grattacoppa, fin da quando la matriarca Anna decise di guardare in faccia il futuro e imbarcarsi nella coltivazione di questo rampicante dalle moltiplici proprietà, che cresce come una vigna e si raccoglie maturo nello stesso periodo in cui scocca l’ora della vendemmia. Da allora il testimonio è passato di generazione in generazione, in rigorosa linea femminile, per cui le foto ritraggono intorno al luppolo (unico maschile singolare) nonna Anna, le sue tre figlie e le due nipoti.
Mi sovviene, osservandole, che Mario Monicelli girò quel delizioso film dal titolo “Speriamo che sia femmina” in cui non per nulla si narrava la genesi di un’azienda agricola, faticosamente strappata da Liv Ullmann nel suo casolare toscano con tutta una nutrita schiera di figlie, nipoti e correlate, mentre le figure maschili o latitano o scompaiono dai radar. Ecco, l’epopea familiare delle Nati Sisters potrebbe entusiasmare un nuovo Monicelli, se scorresse le foto qui intorno immaginandole come fotogrammi di un film.
A impreziosirne il soggetto sarebbe non solo la missione compatta di queste valchirie, ma anche la strana bizzarria di dedicarsi a tempo pieno al luppolo, pianta cannabacea, cioè a tutti gli effetti il fratellino della cannabis, noto ai più come ingrediente essenziale della birra e dunque coltivato assiduamente in terra tedesca o americana. All’insegna della filiera corta, le Anna’s Women hanno consolidato il primato del loro luppolo romagnolo, tanto che ogni anno sono in molti a convergere qui per festeggiare la nuova birra made in Italy, stillata come ambrosia in accordo con un produttore locale.
Qualcuno potrebbe sibilare che la coltura del luppolo è altamente meccanizzata, e molta attività si concentra sulla selezione dei germogli e lo smistamento ai diversi cicli produttivi. Ma le immagini credo che parlino chiaro: con i loro fazzoletti in testa, i guanti e le tute da lavoro, le sorelle Nati portano scritto in viso il loro non risparmiarsi, dedicando vita, tempo e fatica a questa pianticella della quale, non a caso, solo le inflorescenze femminili vengono usate come linfa della birra.
Può bastare? No, c’è di più: chi intuì il valore del luppolo nella preparazione della birra? Manco a dirlo, fu nove secoli fa una donna, suor Hildegarda del monastero tedesco di S.Rupert. Scommetto che dal Cielo veglia a oltranza sulle sorelle Nati. Fonte: laRepubblica, IL GUSTO, Stefano Massini. 06.09.2023