La risicoltura vercellese è riuscita a limitare i danni della crisi climatica con opere idrauliche, ma queste attività, con gli aumenti dei costi di lavorazione e alla riduzione dei volumi prodotti, hanno determinato un incremento percentuale dei prezzi a tripla cifra. La soluzione è un ripensamento della cultura del riso italiano come prodotto di alta qualità
La siccità alla base dell’aumento, attuale e futuro, del prezzo del riso italiano. La carenza di pioggia fatta registrare negli scorsi mesi, a cui ovviamente si aggiungono gli aumenti dei costi energetici, sta avendo ripercussioni dirette e indirette su quanto il consumatore finale dovrà pagare un piatto di risotto al ristorante o, più semplicemente, un chilo di Carnaroli al supermercato. Questa constatazione, fatta prima di tutto da chi produce la materia prima, ha molteplici sfaccettature e apre ancor più scenari per il futuro, a breve ma anche a medio-lungo termine.
Il nostro riso va verso un aumento del proprio prezzo sul mercato anche del 300%, un dato che, se le condizioni di partenza (precipitazioni e costi di lavorazione) non dovessero mutare, potrebbe ulteriormente schizzare verso l’alto.
Il “triangolo d’oro” del riso italiano, che sorge tra le province di Vercelli, Novara e Pavia, è ovviamente l’esempio più facile da portare per raccontare il momento, nel Bel Paese, del più famoso dei cereali.
La zona del vercellese è stata, come tutte, colpita dalla siccità ma ha anche una grande fortuna, ovvero poter attingere dal canale Cavour, costruito proprio su iniziativa dell’omonimo conte a metà dell’ottocento.
Circa novanta chilometri di canale che parte da Chivasso, dove c’è la congiunzione tra Po e Dora Baltea, e sfocia nel Ticino, a Galliate. Questa opera idraulica importantissima sfrutta una naturale pendenza del terreno di appena cinque metri di dislivello, quelli che permettono di spostare milioni di ettolitri di acqua e rendere possibile la risicoltura. Nonostante un decremento della portata di circa il 70%, la provincia di Vercelli è la prima che può attingere dal canale Cavour, mentre il novarese, l’ovest milanese e la Lomellina ricevono solo indirettamente le acque, dopo che queste sono state svasate dalle risaie vercellesi.
Gli Aironi, Lignana (Vc)
«Se noi abbiamo tanta acqua, quindi, possiamo lasciarne ai territori vicini, altrimenti dall’altra parte rimangono a secco» spiega Gabriele Conte della Risi&Co, azienda di Lignana famosa per il proprio marchio Gli Aironi. «Questo è stato il problema principale che non ha permesso alle province a noi vicine di avere raccolti ottimali. Molti campi erano a “pelle di leopardo”, è stato stimato che la perdita di raccolto si aggiri intorno al 40%».
Ciò ha creato due effetti e il più facile da intuire è l’innalzamento del prezzo sul mercato: «Alcuni nostri partner – prosegue Conte – non hanno tenuto fede agli accordi che avevamo preso in precedenza. Se prima il risone veniva venduto a 50-60 euro al quintale, si è arrivati a toccare punte di 150, ma per noi non è possibile agire di conseguenza e triplicare anche il costo del riso che poi viene venduto al consumatore finale. Contemporaneamente sono aumentati i costi di carta, cartone e plastica, materiali necessari a creare le confezioni per trasportare e conservare il prodotto finito, e dell’energia».
A cascata ecco il secondo motivo: proprio per le difficoltà riscontrate negli scorsi mesi, alcuni agricoltori hanno deciso di convertire i propri campi, optando per coltivazioni più redditizie e semplici come il mais da biomassa, diminuendo così i volumi di produzione del riso e rendendolo un bene ancor più pregiato.
Tra le possibili soluzioni per sopravvivere in questo mondo, la principale è la ricerca della qualità: «La nostra fortuna – prosegue il co-owner dell’azienda vercellese – è che in questi anni abbiamo messo a punto lavorazioni e prodotti che ci permettono di differenziarci dal mercato generalista e, obtorto collo, i clienti hanno accettato questi aumenti. Per adesso stiamo scegliendo di incrementare a step intermedi, prima di andare a “regime” con i prezzi che pensiamo possano difendere la nostra marginalità. Teniamo conto che il margine sulla materia prima è di circa il 10%, quota che però aumenta quando il riso lo andiamo a trasformare. L’unica strada è sempre la qualità: non farla scendere e non farsi tentare dal prodotto estero. Non vogliamo fare la “guerra del centesimo”. Vogliamo mantenere la nostra filosofia di prodotto. Per questo ci stiamo specializzando, andando incontro alle specifiche richieste di un certo mercato, quello di cui fanno parte l’alta gastronomia e la cucina professionale, ma anche il “consumatore medio” che però sa quale è la differenza tra un riso da due euro e uno da quattro euro e cinquanta».
È però necessario fare cultura del riso, come di tanti altri prodotti di punta della gastronomia italiana: «Dalle nostre parti siamo abituati ad aprire la finestra su un paradiso come il Monte Rosa e non ce ne accorgiamo più. Allo stesso modo, anche in cucina, per tradizione la nostra mamma o nonna ci ha sempre cucinato manicaretti, un’usanza che nel resto del mondo è sicuramente meno consueta. Ma proprio per questo, se uno straniero si appassiona di “italian food” vuole anche sapere tutte le caratteristiche di quel prodotto e dell’azienda, molto più che un nostro connazionale».
La carenza d’acqua, quindi, è solo una parte della “siccità” che condiziona il mondo del riso italiano. Maggior predisposizione e voglia di approfondimento darebbe una consistente mano alle eccellenze del made in Italy. Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Gabriele Conre, Giovanni Ferrario, 23.02.2023