Quando si pensa alla tavola tipica autunnale, tra i primi sapori che ci vengono in mente (ne sentiamo già il sapore inconfondibile nel palato) ci sono i funghi e i tartufi.
Nell’antica Grecia i funghi erano considerati simbolo di vita, quindi divini e certamente il porcino è il re dei funghi epigei (sviluppo fuori dal terreno). E che dire del tartufo bianco, il fungo ipogeo (sviluppo sotto terra) più pregiato, considerato il re della gastronomia mondiale, un’eccellenza che non ha pari in cucina.
Del fungo si raccoglie la parte riproduttiva (carpoforo) di un organismo più complesso, non visibile (micelio) che vive nel terreno in stretto rapporto con le radici delle piante (funghi micorrizzici) o con detriti vegetali (funghi saprofiti), in stretto equilibrio con l’ ecosistema dei quali sono parte vitale e insostituibile.
La coltivazione dei funghi è tema affascinante che ha impegnato – e tuttora impegna – molti ricercatori nel mondo. In linea di massima i funghi che possono essere coltivati sono quelli saprofiti (per es. i classici champignon o i Pleurotus). Molto più complesso il discorso relativo alle specie micorriziche di maggior pregio (tra cui porcini e tartufi).
Vi proponiamo questi due articoli che affrontano l’argomento.
DA DOVE VENGONO I FUNGHI CHE COMPRIAMO
di Valerio Clari
Il Post, 31 ottobre 2022
Quelli spontanei quasi tutti dall’estero, quelli coltivati dall’Italia: la stagione che sta finendo è stata particolarmente complessa
In queste settimane si sta chiudendo in varie zone d’Italia il periodo in cui è più facile trovare e raccogliere funghi spontanei. In realtà la stagione sembra piuttosto tardiva, e in molte aree dell’Appennino questi sono giorni in cui le nascite sono numerose e le dimensioni dei funghi notevoli. Nel complesso però il 2022 è stato un anno particolare per i funghi: le alte temperature e le pochissime precipitazioni in primavera ed estate ne hanno condizionato a lungo la nascita, che è favorita dall’umidità. Ci sono stati momenti in cui la produzione è stata davvero limitata ed era particolarmente difficile trovare in commercio prodotti italiani.
La cosa ha influito solo su appassionati e ristoratori che si riforniscono localmente: per quel che riguarda i funghi spontanei, e primi fra tutti i porcini, anche in annate normali circa il 95% dei prodotti in commercio è di provenienza estera. Al contrario invece i funghi coltivati che troviamo sul mercato, in maggioranza champignon, sono di origine italiana.
Il commercio dei funghi ha dimensioni mondiali ed è in costante e consistente crescita negli ultimi anni. In Italia ha regole particolari, che distinguono fra i prodotti spontanei o coltivati e fra freschi, conservati o essiccati. Soprattutto per quelli spontanei, c’è la necessità di tutelare il consumatore finale da possibili intossicazioni, visto che solo una parte dei funghi è commestibile, mentre gli altri contengono tossine che possono essere anche letali.
La stagione di ricerca dei funghi selvatici, indicativamente compresa fra maggio e novembre, muove molti appassionati (in varie città italiane sono presenti gruppi micologici che organizzano mostre e conferenze), provoca non pochi incidenti e talvolta porta all’intervento delle forze dell’ordine, come nel caso degli italiani fermati dalle guardie doganali francesi con 150 chili di porcini a inizio ottobre. Ogni paese e ogni regione regola la raccolta con tesserini, giorni e orari di sospensione della raccolta, quantità massime: polizia e carabinieri forestali attuano i controlli.
Il numero dei cercatori di funghi è in grande aumento negli ultimi anni, racconta Angelo Giovinazzo, gestore del blog Funghimagazine, uno dei più popolari fra gli appassionati: «Cercare e raccogliere funghi è diventato di moda, un po’ perché gli chef propongono funghi, soprattutto porcini, in molte ricette, un po’ per gli effetti anche perversi dei social: in molti raccolgono per poi ottenere riscontri, like, follower su Instagram e YouTube. Valsesia e Ossola, in Piemonte, quest’anno sono state prese d’assalto, c’è chi arrivava anche da posti lontani 600 chilometri».
La produzione e il commercio di funghi coltivati sono invece meno problematici e indipendenti dalle variazioni legate a stagionalità o condizioni atmosferiche: le specie di funghi adatte a crescere in questo modo vengono coltivate in fungaie industriali, particolari serre allestite per garantire temperatura, illuminazione e umidità appropriate.
In Italia le specie coltivate sono prevalentemente due: lo champignon (noto in Italia anche come prataiolo, anche se a rigore sono specie diverse per quanto simili, Agaricus bisporus il primo, Agaricus campestris il secondo), che vale oltre due terzi della produzione nazionale, e il Pleurotus ostreatus, detto anche gelone o orecchione (circa il 15 per cento). Ci sono poi coltivazioni di dimensioni minori di pioppini, portobello, cardoncelli, cornucopie e varietà di origini orientale come gli shiitake. La coltivazione dei funghi si è sviluppata in Italia nel secondo dopoguerra: riguarda una sottocategoria dei funghi, quelli definiti saprofiti, che utilizzano la materia organica animale e vegetale per crescere e riprodursi. I porcini, solo per citare i più ricercati, sono invece funghi simbionti, che hanno bisogno di un particolare organismo simbionte, spesso una pianta, per crescere, creando con esso uno scambio continuo e reciprocamente vantaggioso di sostanze. Questo genere di funghi è decisamente più complesso da coltivare, spesso impossibile.
La coltivazione dei funghi saprofiti prevede, una volta installata la serra, normalmente buia, la preparazione di un substrato composto di paglia, letame e gesso. Oggi è fortemente controllato e pastorizzato per evitare che i funghi assorbano elementi patogeni. Dopo l’aggiunta del micelio (l’apparato vegetativo dei funghi, formato da un intreccio di filamenti) la prima raccolta arriva dopo circa 30 giorni, con due o tre raccolte successive a distanza di un paio di settimane utilizzando lo stesso substrato.
I funghi ampiamente più coltivati, come detto, sono gli champignon, Agaricus bisporus: l’Italia ne produce circa 95 mila tonnellate e la quasi totalità di quelli che troviamo in commercio freschi nel nostro paese sono di provenienza italiana. Per i funghi coltivati la legge prevede la chiara indicazione della provenienza, cosa che invece non è necessaria per i funghi spontanei, che devono passare altri tipi di controlli. Gli champignon possono rendere intorno ai 2-2,5 euro al chilo al produttore ed essere venduti intorno ai 4-5 euro al chilo al dettaglio. Non sono stagionali, sono sul mercato tutto l’anno, però i prezzi possono essere influenzati da qualità e temporanee variazioni della domanda o dell’offerta.
Il più grande produttore al mondo di champignon, e di funghi in generale, è la Cina, da cui proviene quasi il 75 per cento dei funghi coltivati (2 milioni e mezzo di tonnellate), con una parte rilevante del mercato costituta dal Nord America, dove non c’è la consuetudine della raccolta dei funghi spontanei e dove anche la coltivazione è meno rilevante.
Tornando all’Italia, se i funghi freschi coltivati sono quasi totalmente di produzione italiana, nel 2020 abbiamo importato 56 mila tonnellate di funghi conservati, sott’olio, in salamoia e congelati, mentre le importazioni di funghi essiccati, per lo più porcini, sono stimabili in 800 tonnellate l’anno. I funghi sono composti per oltre il 90 per cento di acqua: per ottenere un etto di funghi essiccati si utilizza grosso modo un chilo di prodotto fresco. La totalità di questo genere di prodotti è importato (alcune denominazioni “made in Italy” sono possibili in quanto la lavorazione è in aziende italiane): Cina, Polonia, Romania, Paesi Bassi e Spagna sono i principali paesi fornitori.
Quest’anno, spiega Nicola Sitta, esperto micologo e docente, i prodotti europei sono stati più economicamente competitivi rispetto a quelli cinesi: «È una anomalia, dovuta al cambio sfavorevole dell’euro col dollaro, all’aumento dei prezzi dei container, ma soprattutto alla enorme produzione della Romania, che ha abbassato i prezzi dei prodotti europei».
Per quel che riguarda i funghi freschi spontanei, circa il 90-95 dei prodotti in vendita arriva dall’estero. La raccolta italiana è totalmente insufficiente a rispondere alla richiesta ed è fortemente regolata, per cui viene spesso esaurita per il consumo personale, la vendita al dettaglio a livello molto locale, il rifornimento di ristoranti. Raramente arriva alla grande distribuzione e solo nelle fasi di grande abbondanza (che fanno scendere i prezzi) sui mercati. In realtà esistono in Italia anche dei «cercatori professionisti» che rivendono a clienti abituali, racconta Angelo Giovinazzo: «Hanno permessi speciali che permettono loro di raccogliere tutto l’anno e senza limiti di peso. Per ottenerli bisogna superare degli esami e costano di più di quelli normali». I normali permessi hanno prezzi variabili: vanno dai 30 euro l’anno del Piemonte ai 30 ad uscita di Liguria ed Emilia.
Per quel che riguarda i funghi freschi non è necessaria l’indicazione della provenienza, anche se esiste un parere della Comunità Europea del 2017 che invita i paesi membri ad adeguare le leggi per renderla obbligatoria. Un adeguamento è sollecitato da molti operatori del settore per evitare indicazioni false di provenienza (spesso sui mercati i funghi vengono spacciati come italiani).
Quelli che compriamo abitualmente al mercato o nei supermercati particolarmente forniti arrivano soprattutto da Romania, Bulgaria, Slovenia, Serbia e Croazia, ma anche dal Nord Europa. Nelle fasi dell’anno in cui in Europa i funghi spontanei sono più rari si ricorre a prodotti sudafricani: il trasporto e la conservazione dei prodotti freschi sono ovviamente una questione maggiormente problematica quando aumentano le distanze.
Il fungo ampiamente più richiesto è il porcino, nome scientifico Boletus edulis: il prezzo può variare fra i 15 e i 30 euro al chilo, a seconda della qualità e delle quantità disponibili sul mercato. Più spesso quelli raccolti localmente costano fra i 25-30. Ma nelle grandi città, lontano dai punti di raccolta, i prezzi possono arrivare anche al doppio, tanto che con una pratica discutibile vengono talvolta indicati al mezzo chilo. Nella vendita locale e per i ristoranti poi può contare anche la dimensione: gli esemplari più piccoli sono ricercati per essere conservati interi sott’olio. Un’altra variabile è legata alla freschezza del prodotto, che è di difficile conservazione: la quotazione del fungo è destinata a scendere quanto più ci si allontana dal momento in cui è stato effettivamente raccolto.
La grande popolarità dei porcini ha portato a provare a elaborare metodi di coltivazione, che sono però molto complessi, prevedono tempi lunghi e non danno risultati certi. La coltivazione può avvenire solo attraverso la micorizzazione, una tecnica che consiste nel trasferire in un terreno le radici del fungo e creare un rapporto di simbiosi con altre piante, di solito castagni e querce. Esistono poi tentativi sperimentali di coltivazione di porcini in serra.
Chi vuole vendere funghi spontanei deve prima di tutto ottenere un certificato di idoneità al riconoscimento, rilasciato dalla ASL (azienda sanitaria locale). I funghi devono essere divisi in cassette suddivise per specie, indicata con il nome scientifico, e non è possibile venderli quando parzialmente o totalmente rovinati: ogni cassetta deve ottenere dalla ASL un certificato che indichi l’avvenuto controllo di tutti i funghi da parte degli Ispettorati Micologici. Questi ispettorati sono in quasi ogni provincia, con maggiore presenza nelle zone più interessate dalla raccolta: in Piemonte, per esempio, sono 25, in Toscana oltre 30.
Quest’anno per lunghe fasi della stagione, soprattutto in primavera e all’inizio dell’estate, le vendite di prodotti spontanei italiani sono state molto ridotte perché le nascite dei funghi erano rare. Le alte temperature arrivate già in tarda primavera e le poche precipitazioni hanno limitato il numero di funghi soprattutto nei boschi dell’arco alpino.
Nicola Sitta dice: «In realtà gli effetti della siccità saranno più gravi sui tartufi. I funghi, anche dopo una siccità prolungata, dopo una pioggia consistente possono far registrare “buttate” molto importanti». È quello che è successo nel mese di ottobre soprattutto nell’area appenninica e del centro Italia, dove si registrano grandi nascite, ma anche in Calabria, Basilicata e Campania. L’annata ha fatto registrare anche una produzione superiore alla media di Amanita Caesarea, conosciuta come “ovulo buono”. Le segnalazioni delle nascite vengono condivise da appassionati e “fungaioli” su chat private, blog e siti specializzati: Funghimagazine ha oltre 600 membri attivi in tutta Italia. Incrociando le loro indicazioni con i dati sulle precipitazioni compone tabelle aggiornate e approfondite, provincia per provincia, zona per zona, con indicazioni sulla possibilità di trovarli.
IN FRANCIA DICONO DI ESSERE RIUSCITI A COLTIVARE IL TARTUFO BIANCO
Di Ludovica Lugli
Il Post, 17 febbraio 2021
Come per altri funghi pregiati attualmente la produzione è limitata a quelli che crescono spontaneamente, nonostante molti tentativi
Un tartufo bianco all’asta nel castello di Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo, il 10 novembre 2019 (Giorgio Perottino/Getty Images for Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba)
Martedì un istituto di ricerca nazionale francese ha annunciato di essere riuscito a coltivare il tartufo bianco, una delle specie di funghi più pregiate al mondo. È anche una delle molte specie di funghi che non si riesce a coltivare, sebbene ci si provi fin dagli anni Settanta. I tartufi bianchi crescono spontaneamente solo in alcune zone dell’Italia (in particolare intorno ad Alba, in Piemonte), dei Balcani e più raramente in Svizzera e nel sud-est della Francia, ma in quantità limitate, che diminuiscono se non ci si prende cura dei boschi. La possibilità di ottenerne in maggiore quantità grazie a tecniche di coltivazione è quindi una notizia importante per il mondo dei tartufai.
I tartufi bianchi sono molto ricercati per il sapore straordinario che li contraddistingue, ma per via della loro rarità sono anche molto costosi. Il prezzo al chilo varia tra 1.500 e 3.000 euro a seconda dell’abbondanza del raccolto annuale, che generalmente è nell’ordine di qualche decina di tonnellate. In certe aste possono anche raggiungere la quotazione di 50mila euro al chilo. Per questo è da decenni che in Italia e non solo si fanno degli studi per capire come favorirne la produzione o addirittura riuscire a coltivarli, come si fa da più di cinquant’anni con i meno pregiati tartufi neri.
L’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (INRAE) dice di esserci riuscito in Nuova Aquitania, una regione della Francia dove i tartufi bianchi non si trovano in natura. Questo risultato, presentato in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Mycorrhiza, è stato ottenuto grazie a una collaborazione con il vivaio Robin di Saint-Laurent-du-Cros, un comune della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, iniziata nel 1999. Per capire come, però, bisogna sapere alcune cose sui funghi, a partire dal fatto che il verbo “coltivare” è in realtà impreciso quando si parla di tartufi.
I funghi che si trovano al supermercato, come gli champignon e gli orecchioni, si possono coltivare facilmente anche in casa: basta avere a disposizione uno spazio umido e buio, e un substrato per la coltivazione che contenga sostanze nutritive per i funghi (possono funzionare anche i fondi di caffè). A quel punto per avviare una coltivazione basta aggiungere del micelio, quell’intreccio di filamenti sotterranei che è il “corpo” vero e proprio dei funghi – quelli che mangiamo e chiamiamo funghi sono invece i “corpi fruttiferi” del micelio.
Coltivare i tartufi bianchi e molte altre specie di funghi, tra cui i porcini, non è altrettanto semplice perché sono funghi micorrizici. Significa che il loro micelio cresce solo in associazione con le radici di una pianta. È un tipo di simbiosi: i funghi micorrizici estraggono dal suolo dei minerali utili alle piante per crescere; le piante “in cambio” forniscono ai funghi gli zuccheri che producono grazie alla fotosintesi. Per via di questa simbiosi, “coltivare” funghi micorrizici significa in realtà coltivare le specie di alberi insieme ai quali crescono, condizionandole in modo da ottenere un gran numero di corpi fruttiferi.
Dal 2008 il vivaio Robin vende giovani piante di roverella (un tipo di quercia) le cui radici sono legate a micelio di Tuber magnatum. Il vivaio spiega a chi compra queste piante che non c’è certezza di successo, ma dà istruzioni su come devono essere il terreno e il clima per essere favorevoli alla crescita dei tartufi. L’INRAE, da parte sua, si occupa di certificare la presenza del fungo in ognuna delle piante vendute grazie ad analisi del DNA. Inoltre negli anni ha seguito la messa a dimora e lo sviluppo di alcune roverelle che sono state piantate in regioni dove normalmente i tartufi non crescono.
In totale l’INRAE ha studiato cinque tentativi di coltivazione del tartufo bianco. Finora ha rilevato la permanenza del micelio, a distanza di 3-8 anni dalla messa a dimora delle roverelle, in quattro piantagioni, che si trovano in tre regioni con climi diversi: il Rodano-Alpi, nella Francia sud-orientale, la Borgogna-Franca Contea, più a nord, e la Nuova Aquitania. Nel 2019 nella piantagione della Nuova Aquitania sono stati raccolti tre tartufi, nel 2020 quattro: è per questo che i ricercatori dell’INRAE dicono di essere riusciti a coltivare il tartufo bianco.
In passato erano già stati fatti tentativi simili, anche in Italia, ma dato che gli esperimenti erano stati condotti in zone in cui i tartufi bianchi crescono spontaneamente non si è mai potuto dire con certezza se fossero cresciuti grazie all’intervento umano o meno.
Michel Tournayre, presidente della Fédération française des trufficulteurs, ha definito l’annuncio dell’INRAE «un grande sviluppo», facendo notare che i prezzi dei tartufi bianchi sono tre volte più alti di quelli dei tartufi neri, i più diffusi in natura e già coltivati in Francia. Attualmente il 90% della produzione francese di tartufi neri proviene da piante coltivate.
Anche Mauro Carbone, direttore del Centro nazionale studi del tartufo di Alba, è ottimista. «Siamo molto felici se qualcuno porta dei risultati di questo tipo, è una sfida molto intrigante per tutti» ha detto al Post. Riuscire ad aumentare la produzione di tartufi bianchi sarebbe importante anche per i territori dove crescono spontaneamente perché, spiega Carbone, «c’è un calo della produzione naturale che è preoccupante» e «le aree di produzione spontanea sono sempre meno», nonostante in Piemonte si investa molto per la manutenzione dei boschi. Infatti non tutte le querce che crescono in territori adatti diventano “produttrici” di tartufi bianchi: non sappiamo bene perché, dato che ci sono ancora molti aspetti sconosciuti sul rapporto di simbiosi che lega questi funghi agli alberi.
Carbone dunque non è preoccupato per le eventuali ripercussioni economiche che la scoperta francese potrebbe avere sul mercato dei tartufi italiani – «Mi preoccupo di più quando mi dicono che una pianta che produce tartufi è stata abbattuta» – ma vede un vantaggio per tutti nel risultato dell’INRAE.
Pensa qualcosa di simile anche Michele Filippo Fontefrancesco, antropologo e ricercatore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, esperto delle pratiche culturali legate alla raccolta dei tartufi: «Ciò che rende speciale il tartufo bianco in Italia è la tradizione culturale che c’è attorno. Si apprezza il tartufo di Langa per l’odore e l’aroma, ma anche per la parte di magia legata alla conoscenza viscerale del territorio e degli animali, i cani in particolare, con cui si cercano i tartufi». Se anche in futuro i tartufi bianchi dovessero arrivare in tutti i supermercati – una prospettiva in ogni caso lontana – secondo Fontefrancesco sarà importante «valorizzare la specificità italiana e le diverse tradizioni italiane dei tartufai, che sono una delle particolarità del patrimonio gastronomico italiano».
CONCLUSIONI
L’aroma che accompagna l’autunno di ciascuno di noi è l’aroma dei funghi e, per i più appassionati (e fortunati) quello dei tartufi. Sono alimenti che, oltre ad essere gustosi, possiedono qualità nutrizionali pregevoli ma, con il loro inconfondibile profumo, scatenano nell’immaginario soprattutto un’idea di alta cucina che ha reso celebri alcuni ristoranti del nostro paese. Per i più curiosi e anche per noi che abbiamo una conoscenza chimica superficiale, ricordiamo brevemente che fra le molecole principalmente responsabili dell’aroma dei funghi c’è l’1-otten-3-olo, anche detto alcool fungino, un alcol secondario con un aroma terroso e di fungo. La sua soglia di odore è estremamente bassa e può essere rilevato anche a concentrazioni molto basse. Il caratteristico e penetrante odore del tartufo è dato invece da una trentina di composti differenti: alcoli, aldeidi, esteri, chetoni e composti dello zolfo. Determinante pare che sia proprio un composto dello zolfo chiamato bis-metiltiometano che può anche essere sintetizzato, quindi facciamo attenzione a quei prodotti che, con la dicitura “aroma”, non contengono affatto il prodotto naturale.
Ma questi due piccoli prodotti dei nostri boschi e sottoboschi ci fanno riflettere soprattutto su temi che non possiamo più procrastinare: quello ambientale e quello del cambiamento climatico. Il loro rapporto simbiotico con le radici delle piante ne fa delle vere e proprie “sentinelle ambientali” che non tollerano qualsiasi alterazione dell’equilibrio naturale o fattore di inquinamento del loro habitat naturale. La loro ricerca e raccolta hanno una stagionalità ben precisa che deve essere svolta in maniera consapevole ed intelligente per preservare il territorio ed evitare danni anche involontari. Inoltre il cambiamento climatico, l’assenza di precipitazioni, altera la salute del bosco e di conseguenza il loro equilibrio biologico, riportandoci alla necessità di affrontare e stimolare una svolta culturale in nome di un BUONO PULITO e GIUSTO per TUTTI noi ma soprattutto per le nuove generazioni.