Se siete impressionabili, passate oltre. Perché la lista delle bizzarrie gastronomiche in giro per il mondo non conosce limiti e a tutte le latitudini ci sono ricette che mettono alla prova anche gli appetiti più tenaci
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Prendete delle frattaglie di pecora – cuore, fegato e polmoni – tritatele insieme a cipolla, grasso di rognone, fiocchi d’avena, sale e spezie. Farcite con questo ripieno lo stomaco della pecora e fate lessare il tutto per alcune ore nel brodo; quindi, tagliate le porzioni (possibilmente con una spada, se volete rispettare pienamente la tradizione) e servite con “neeps and tatties”, ovvero rape e patate bollite a parte e passate in purea, e un bicchiere di whisky per mandare giù il tutto.
Il piatto nazionale scozzese, celebrato dal poeta Robert Burns nel 1787 in Address to a Haggis, è la portata d’onore del Burns supper, con cui ogni anno, il 25 gennaio, si ricorda la nascita del “bardo scozzese”, ma si può gustare ogni giorno e a ogni ora, dalla colazione alla cena, in pub e ristoranti.
Insieme ad altri piatti leggeri e dietetici come la crappit heid, la testa di merluzzo ripiena con il fegato del pesce mischiato ad avena, e il black pudding, una salsiccia fatta con avena, grasso di rognone, cipolla e sangue di pecora o di maiale che si cucina in padella e si serve con uovo fritto e pomodori grigliati.
Per un abbinamento ancora più insolito c’è la steak and oyster pie, una torta salata con manzo e ostriche. Non è, come si potrebbe pensare, una bizzarria da ricchi, ma un piatto povero. Un tempo, infatti, nel Regno Unito le ostriche erano così abbondanti che si trovavano in ogni taverna e venivano aggiunte a moltissimi piatti per arricchirli e insaporirli.
Non occorre arrivare fino all’ Estremo Oriente per “farlo strano”: anche l’Europa è ricca di pietanze che possono mettere alla prova chi è abituato a confrontarsi con una cucina più contemporanea e digeribile, e persino stare alla pari con le fin troppo inflazionate uova dei cent’anni della tradizione cinese e altre stravaganze culinarie asiatiche.
La palma spetta forse all’Islanda che annovera tra le usanze che più sgomentano i visitatori quella di proporre in molti ristoranti i puffin o lundi arrosto. Dolci, simpatici, simili a pupazzetti di peluche, con il loro grande becco colorato per cui sono chiamati anche pulcinella di mare, sì sono proprio quegli stessi uccelli marini che poche ore prima avete inseguito con binocolo e macchina fotografica sulle scogliere dell’isola. E no, non sono protetti anche se il loro numero, un tempo cospicuo, si va assottigliando. Si cacciano solo tra luglio e agosto, ma in realtà si trovano in ogni stagione. Chi ha avuto cuore di assaggiarli li definisce saporiti e di gusto particolare.
Nulla di straordinario, tuttavia, rispetto alle numerose e bizzarre specialità della tradizione vichinga che spesso si trovano tutte riunite in un vassoio di legno nel Thorramatur, la versione islandese del tagliere di formaggi e salumi che rende omaggio al leggendario re Thorri, personificazione del gelo invernale nella mitologia nordica. Sono delicatezze afrodisiache come l’hrutspungur, testicoli di montone bolliti e pressati in forma di aspic con latte acido. O la svid, una testa di pecora tagliata in due con una sega per il lungo e quindi bollita. Si serve completa di pelle e denti, lingua e occhi e si trova surgelata, in salamoia o anche, per i più delicati macinata e ridotta a patè.
Sempre in tema di pecore ci sono lo slatur, probabile parente dell’haggis, un miscuglio di frattaglie e sangue messe in un budello e bollite, e la sviðasulta, la gelatina di pecora. E non può mancare il kæstur hákarl, lo squalo fermentato, che alcuni notissimi chef tra cui il compianto Anthony Bourdain,e Gordon Ramsay, hanno definito il cibo più disgustoso al mondo. Si ottiene facendo a tranci appunto uno squalo, seppellendolo per mesi nella sabbia e quindi arieggiandolo all’aperto. Questo trattamento serve a renderlo commestibile e a trasformarne la carne tigliosa in una sorta di pasta gelatinosa dal forte e inconfondibile odore di ammoniaca.
A Bjarnearhofn, vicino all’azienda che è la maggior produttrice di questa specialità, lo Shark museum racconta tutto della lavorazione e propone assaggini da gustare sul posto e da asporto. Un bicchierino della forte acquavite locale aromatizzata al cumino, il brennivín, nota come Morte Nera, può aiutare a superare l’esperienza.
Foche e balene, per il disappunto degli ambientalisti, trionfano sulle tavole scandinave, dalla Groenlandia alle Svalbard. La carne di foca, ricca di ferro e vitamina B, si mangia in ogni modo, arrosto, fritta, bollita, affumicata, ma la parte più apprezzata sono le pinne. Anche delle balene non si butta via nulla, dal grasso alle bistecche al sushi.
Il tutto da accompagnare con il hverbraud, pane nero di segala cotto per 10 ore nel terreno bollente vicino alle tante sorgenti geotermiche e quindi con un vago retrogusto sulfureo.
Se poi ci si trova in Norvegia e ci si stanca di mangiare salmone e renna, si può sempre passare al merluzzo che, oltre alle solite ricette, viene proposto in due originali lavorazioni: nella versione Gammelsalta sei, ovvero merluzzo fermentato, e in quella Lutefisk, passato nella soda caustica. Il primo sarebbe del normalissimo merluzzo sotto sale, non fosse che per un dettaglio: il pesce non viene eviscerato né dissanguato e deve restare ricoperto di sale per un anno, se possibile anche di più. Più invecchia, più si fa buono, assicurano gli estimatori.
Il lutfisk, il pesce in candeggina, invece, questa è la traduzione del suo nome, parte dal baccalà, lasciato in ammollo in acqua fredda (cambiata ogni giorno) per sei giorni, quindi per due giorni nella soda caustica e quindi di nuovo 5-6 giorni in acqua fredda. Infine, 5 minuti di bollitura ed è fatta.
Dritta dritta dalla Spagna, l’Olla podrida “pentola marcia o imputridita“, non sembra promettere delizie. In realtà è un antico piatto di tradizione medievale la cui composizione richiama alla mente l’improvvisato e caotico stufato irlandese descritto da J.K. Jerome, in Tre uomini in barca, ovvero un modo per riutilizzare avanzi di cucina di ogni tipo. Questo dà anche una certa instabilità agli ingredienti da usare, che in effetti variano molto a seconda delle versioni e possono comprendere orecchie e zampetti di maiale, lardo, pollo arrosto, cavolo, pane, spalla d’agnello, salsiccia, salame, riso, rape, pancetta affumicata, manzo, uova, ceci, fagioli e perfino lumache in una variante algherese, terra di tradizioni catalane… Una ricetta che risale al 1581, riportata nel libro di cucina di Marx Rumpolt, elenca ben diciannove diversi ingredienti.
Molto più semplice il brodo di sassi, protagonista di diversi racconti popolari, che affiora in diverse cucine, tra cui quella livornese, dove si tramanda questa antica ricetta che prevede come ingredienti alcuni sassi di mare, spugnosi e ben ricoperti di alghe, sedano, uno spicchio di cipolla, una mezza carota, un pochino di prezzemolo, alcuni pomodorini.
L’unica raccomandazione è quella di non far prendere aria ai sassi, quindi si consiglia di riempire un secchio con acqua di mare, prelevare i sassi dal fondo e, senza portarli fuori dall’acqua, passarli direttamente nel secchio. L’acqua del trasporto si può usare direttamente per la cottura, mescolata a quella dolce, così si risparmia anche sul sale. Meglio anche filtrare il tutto a fine cottura e accertarsi prima delle condizioni di inquinamento del luogo di prelievo. Ne esiste anche una variante napoletana, ‘A pasta cu ‘e pprete di Castellamare di Stabia, versione decisamente più economica della pasta ai frutti di mare: a un sugo di pomodoro arricchito di peperoncino e aglio soffritto si aggiungono alcune pietre recuperate del mare che lo aromatizzano.
Oltre la trippa, in Francia c’è l’andouillette, un budello ricolmo di interiora di vitello o di maiale, in genere trippe e stomaco che, secondo un critico del Telegraph ”sembra, odora e sa di qualcosa che sembra uscito da un gabinetto”. La più famosa è prodotta a Troyes e, secondo una leggenda, la sua degustazione finì per distrarre irrimediabilmente l’armata reale durante le guerre di religione del 1500, offrendo alla Lega cattolica l’occasione per contrattaccare. Invisa a tutti, tranne che ai francesi, è definita dal Dictionnaire Larousse étymologique et historique du français così: “Fatta con le budella terminali e altre grosse budella, nelle quali si inseriscono altre budella”.
Infine, ma non è più una stranezza in un mondo occidentale che ha sdoganato gli insetti, c’è il casu fràzigu o casu martzu sardo, forme di formaggio a cui accade quello che di solito si cerca di evitare: la colonizzazione da parte della mosca casearia che le riempie di larve. Queste si nutrono del formaggio e lo trasformano in una crema piccante, di gusto particolare. Pratica contadina e casalinga, poi vietata dalle norme europee, sta ora riprendendo sotto il controllo dell’ istituto di Entomologia agraria di Sassari che garantisce un allevamento in ambiente controllato della Piophila casei, la mosca che dà il via al processo. Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Carla Reschia, 16.09.2022