Estremamente prezioso sin dai tempi antichi, compare oggi nelle forme e nei colori più variegati, tanto che scegliere quello giusto sembra impossibile
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Quelli di zucchero non sono gli unici granelli bianchi a essere sotto i riflettori delle nostre cucine: sul patibolo accanto allo zucchero raffinato troviamo anche il sale estratto dalle miniere o qualunque altra variante che non sia venduta come “integrale”, incapace di reggere il confronto con il miracoloso sale dell’Himalaya, tanto per citare un esempio. Ma come possiamo orientarci tra gli scaffali del supermercato, dove accanto alle classiche scatole di cartone troviamo appariscenti barattolini contenenti cristalli rossi, grigi e neri?
Grosso, fino o di Maldon?
Il segreto sta nel comprendere cosa stiamo acquistando e farne buon uso, in cucina come a tavola. Molte mamme ci hanno insegnato a usare il sale grosso per l’acqua della pasta o per sughi e minestre, e quello fino per carne, pesce e verdura, e per le aggiustatine dell’ultimo momento a gusto e piacimento dei commensali. Ci sono case in cui però il sale grosso è del tutto assente, ed il classico pugno per la pentola di acqua bollente è sostituito con un paio di cucchiaini di sale fino belli colmi. Tutta questione di abitudine: infatti la dimensione dei cristalli influenza solo la velocità con cui il sale si scioglie in acqua; usando il sale grosso dovremo solo aspettare un po’ di più. Caratteristica invece molto rilevante dal punto di vista gastronomico è la forma dei granelli: non a caso sui crackers abbondano le “scaglie” di sale, che coprono una superficie più ampia della nostra lingua e quindi interagiscono meglio con i nostri recettori. Ecco perché il celebre sale di Maldon può sembrare più “salato” se confrontato con un sale fino qualunque. Ma non è certo per questo che arriva a costare 22 euro al chilo: nel clima umido e piovoso della Gran Bretagna, suo luogo di origine, non si riesce a produrre il sale sfruttando il sole e il vento che abbondano nei paesi mediterranei, ma si ottiene dall’acqua di mare per ebollizione; si tratta dunque di un processo altamente dispendioso dal punto di vista energetico (e decisamente non ecosostenibile), di qui un costo così elevato.
Sale marino o salgemma?
Un altro dubbio amletico che spesso ci attanaglia al momento dell’acquisto è relativo alla provenienza di questo prezioso minerale: sarà meglio optare per il sale “marino” o per il “salgemma” (estratto da miniera)? La verità è che tutto il sale che consumiamo proviene dal mare, e il primo non è da ritenersi più “naturale” o salubre del secondo. Ebbene sì, l’unica differenza è che quello estratto dalle miniere sfrutta depositi fossili di mari prosciugati milioni di anni fa, invece il sale marino viene estratto dai mari di oggi. In Italia abbiamo saline che operano da secoli sfruttando l’energia solare per far evaporare l’acqua: quelle di Margherita di Savoia, in Puglia; oppure quelle di Cervia in Romagna; il “Sale marino di Trapani” è addirittura presidio Slow Food, nonché inserito nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali siciliani riconosciuti dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Qui una visita alle saline è d’obbligo, e le Saline Ettore e Infersa offrono un’esperienza di “saliturismo” senza rivali: passeggiate guidate lungo le vasche, la raccolta manuale del sale insieme a veri salinai, degustazioni di sali e percorsi benessere. Non può senza dubbio mancare l’aperitivo al tramonto con vista sui mulini a vento, che dominano l’orizzonte regalando uno spettacolo memorabile.
Ma quindi nel mare c’è solo cloruro di sodio (nome chimico del sale da cucina)?
In realtà l’acqua di mare, ieri come oggi, contiene praticamente qualsiasi cosa: sostanze chimiche dalle nostre case, dai fiumi, dai terreni, dalle fabbriche. Nella maggior parte dei casi in concentrazioni talmente basse da non avere alcun effetto nutrizionale o salutistico, e per fortuna, perché oltre ai preziosi oligoelementi tanto decantati ne troviamo altri tossici o velenosi come il piombo e l’arsenico. Tracce innocue, nel bene e nel male, iodio incluso: è presente in quantità del tutto insignificanti, anche nel portentoso sale integrale, tanto è vero che è necessario aggiungerlo per scongiurarne la carenza diffusa in alcune zone d’Italia. Le uniche sostanze non trascurabili sono composti che devono essere eliminati per scongiurare un sapore terribilmente amaro e ottenere del sale quasi puro (oltre il 98%). Il sale “integrale” non fa eccezione: come gli altri va incontro a raffinazione, ma non subisce il lavaggio finale e non viene asciugato, rimanendo dunque più umido. Non è tuttavia più salutare del ben più economico sale bianco.
Non è tutto sale quel che luccica
La tentazione davanti ai sali colorati è innegabile. L’artista che è in noi è già pronto a riempire il carrello della spesa: rosso come la saliera a forma di corallo che ci siamo accaparrati a quel mercatino dell’antiquariato oppure nero, en pendant con il servizio di piatti conquistato con fatica grazie ai punti del supermercato? Poi l’occhio cade sul prezzo, che ci fa rinsavire. Anche in questo caso è semplice cloruro di sodio, con “sporcizia” aggiunta: argilla rossa nel sale rosso delle Hawaii, argilla grigia nel sale grigio di Bretagna; nel sale nero di Cipro il carbone vegetale viene addirittura addizionato in fase di produzione (è l’etichetta a svelare l’arcano mistero). I sali colorati non sono neppure iposodici: è naturale che contengano meno cloruro di sodio dal momento che hanno impurità aggiunte, ma un vero sale iposodico deve ridurre il sodio a parità di potere salante (ecco perché nei sali iposodici il cloruro di sodio è mescolato con cloruro di potassio).
Menzione a parte merita il sale rosa dell’Himalaya: a dispetto del nome altisonante questa falsa panacea proviene da una miniera distante qualche centinaio di chilometri dalla famosa catena montuosa. Colpevoli della colorazione rosa sono gli ossidi di ferro, ancora una volta in quantità del tutto irrisorie: se anche sostituissimo i cinque grammi giornalieri di sale che mediamente usiamo in cucina con il sale dell’Himalaya assumeremmo meno del 3% della dose di ferro raccomandata. Non limita il rischio di ipertensione, né la ritenzione idrica, non riduce i crampi, non favorisce un sonno regolare e non aumenta neppure il desiderio sessuale: nessun particolare vantaggio aldilà della romantica colorazione.
Tutti questi trucchetti sono ben noti agli chef, che si dilettano con “guarnizioni saline” di forma, dimensione e colore diversi, per la gioia dei nostri occhi e delle nostre papille gustative; ma nulla ci vieta un po’ di divertimento anche a casa, magari con un lancio alla Pollock per donare un tocco di colore a un pallido filetto di pesce al vapore o lasciando scivolare qualche granello sull’avambraccio, alla Salt Bae, come coronamento di una bistecca succulenta. Fonte: Linkiesta, Gastronomika, Thea Papa, 07.09.2022