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Giu 29 2022

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UVA SUCUS: PLINIO IL VECCHIO, L’ENOLOGO DELL’ANTICA ROMA

Una guida per appassionati di vino: agile, divertente, chiara, scritta con competenza. E ha 2000 anni

Nella Naturalis Historia Plinio descrive e cataloga decine di varietà di vite, analizza le caratteristiche dei diversi terroir, recensisce bottiglie italiane e straniere. Viaggiare tra le sue pagine è scoprire quanto l’antichità classica sia ancora vicina, almeno nel bicchiere.

Non c’è mai niente di nuovo sotto il sole. La passione per il vino buono e la voglia di raccontarlo, l’attenzione al territorio e alle sue tipicità, la cura posta nell’organizzare catalogazioni utili a scegliere con criterio, l’attenzione alle proprietà nutrizionali e salutistiche. Tutto era già passato attraverso la penna di Plinio il Vecchio un paio di migliaia di anni fa. Anche la rivalità sempre attuale tra Italia e Francia. «Da dove potremmo meglio cominciare, se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo? Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore». Con queste parole Plinio inizia la sezione della Naturalis Historia (“La storia naturale”, edizioni Einaudi) dedicata al mondo del vino.

È questa l’opera più importante di un grande studioso, dal sapere enciclopedico e dalle straordinarie capacità di ricercatore: quasi 500 le fonti greche e latine consultate per creare una summa culturale che spazia dalle arti figurative alla geografia, dalle scienze naturali alla medicina, fino alla botanica e alla gastronomia. Plinio, nato a Como nel 23 d. C. da una ricca famiglia appartenente all’ordine equestre, ricoprì importanti incarichi politici e militari, ma è al sapere che dedicò la sua esistenza: comandante della flotta con base a Miseno, come seppe dell’eruzione del Vesuvio del 79, accorse con le navi per portare aiuto alla gente di Pompei e di Ercolano, e per osservare da vicino il fenomeno. Troppo da vicino: morì a Stabia, soffocato dalle ceneri.

La sezione della Naturalis Historia dedicata all’enologia è organizzata con rigore e chiarezza: la prima parte del libro XIV è dedicata alla vite, la seconda al vino, la terza alle tecniche di lavorazione delle uve.

La vite e i vitigni

«La vite, introdotta nell’accampamento, simboleggia, in mano al centurione, l’autorità e il comando… le viti hanno suggerito le idee per le macchine d’assedio. Per ciò che concerne il potere medicinale, hanno un’importanza così grande, da essere esse stesse, senza altra aggiunta, una medicina col vino che danno», Poco da stupirsi, quindi, che l’erudito dedicasse tanto spazio alla catalogazione delle viti, partendo dalle varietà straniere per arrivare a quelle italiane.

Tra queste «il primo posto è assegnato alle viti aminnee, per la robustezza del loro vino che prende corpo sempre di più con l’invecchiamento»: sono le viti più celebri del mondo romano; il loro nome deriva da quello di una località campana e molti ritengono che da esse derivi l’attuale Aglianico. «Il secondo posto va alle viti nomentane che, per il legno rossastro, sono state da taluni chiamate viti rossicce… sono resistentissime alle gelate e soffrono di più la siccità che la pioggia, più il caldo che il freddo; per questo motivo eccellono nelle zone fredde ed umide», caratteristiche per le quali non stupisce che dall’antica Nomentum, Mentana, nel Lazio, queste viti si siano trasferite sulle Alpi, e molti le identifichino con il Traminer.

Poi «alle viti apiane hanno dato questa denominazione le api, che ne sono ghiottissime»: alcuni le ricollegano al Moscato per la loro dolcezza, altri al Fiano, che prenderebbe nome da apianus, appunto. Tutte queste erano uve autoctone: Plinio passa ad elencare quelle che già allora erano note come importate, coltivate in Italia e provenienti dalle isole greche o dalle regioni del Nord, dall’Epiro o dalla Spagna.

Lo storico sottolinea il legame forte tra le viti e il loro territorio d’origine, tanto che spesso «non possono essere trasferite in alcun luogo senza che la loro qualità venga intaccata». L’influenza del terroir era già chiara, così come l’azione del clima, di fattori come la brezza marina o la pioggia, che fortificano o indeboliscono di volta in volta le diverse varietà di vite: un esempio? La spionia che «sopporta il calore e cresce con le piogge autunnali; anzi è la sola ad essere rinvigorita dalla nebbia, fatto per cui è tipica dell’agro ravennate».

Si passa poi a elencare le varietà locali, quelle meno comuni e gli ibridi. Si parla della perusinia, antenata del Lambrusco, diffusa a Modena fiera dei suoi acini neri, «il cui vino sbianca nel giro di quattro anni». E proprio a Modena «esiste, cosa straordinaria, un tipo di uva che segue i movimenti del sole e che per questo è denominata streptis», ossia pieghevole. Nessuno ne ha mai trovato traccia: sarà davvero esistita?

I vini

Se già leggendo la sezione dedicata alle viti si rimane sorpresi per la grandissima attualità del testo, è quando Plinio passa a raccontare i vini e le loro qualità che tra le pagine prende vita il lavoro di un moderno sommelier. Si parte dai vini omerici, famosissimi nel mondo antico, che ancora si producevano all’epoca di Plinio e si apprezzavano tanto che i loro prezzi erano altissimi: si trattava di vini molto forti, al punto che andavano diluiti con otto parti di acqua per ogni parte di vino e in alcuni casi addolciti con miele. Ma non solo la tradizione e la fama decretavano il successo di una bottiglia (o di un’anfora): già allora l’annata era considerata un fattore fondamentale. «Restò celebre un’annata per la bontà di tutte le specie: fu l’anno del consolato di Lucio Opimio (121 a.C.), quando il tribuno Caio Gracco, attizzando le sedizioni della plebe, fu assassinato. Tale fu la temperatura – la si chiama cottura – mantenuta da un sole splendente nell’anno 633 dalla fondazione di Roma, che si conservano tuttora vini di quell’anno vecchi di quasi duecento anni, ormai trasformatisi in una sorta di miele amaro (è proprio questa, infatti, la caratteristica dei vini invecchiati), che non si possono bere puri o stemperati in acqua, perché l’incorreggibile rancidezza conferisce loro un sapore amaro; ma, mischiati in piccolissima quantità, si usano per tagliare gli altri vini che si vogliono valorizzare». Competenze tecniche, conoscenze storiche, sensibilità del palato, chiarezza di scrittura: tutto quello che sarebbe richiesto ancora oggi a un giornalista enogastronomico. Anche uno sguardo approfondito al mercato: «Tanto denaro rendono le cantine! Nessun’altra merce acquista più valore nel giro di vent’anni».

Plinio è consapevole che il miglior giudice della qualità di un vino è il consumatore. A questo proposito racconta i gusti di alcuni VIP dell’epoca. Giulia Augusta, seconda moglie di Augusto, sosteneva che grazie al vino di Pucino era arrivata all’età di 86 anni: prodotto in piccola quantità nei pressi delle sorgenti del Timavo, nella zona di Trieste, aveva fama di avere virtù curative. E se fosse il nonno del Prosecco? Ma il divino consorte, l’imperatore, al Pucino preferiva il vino di Sezze, nell’Agro Pontino: una preferenza condivisa da molti altri imperatori, che ne apprezzavano la digeribilità.

Il più famoso vino dell’antichità era già scomparso ai tempi di Plinio, che lo ricorda come un prodotto di grande qualità: il Cecubo, proveniente da un ristretto territorio vicino a Terracina. Secondo classificato il famosissimo Falerno: cru del Falerno era il Faustiniano. E come accade oggi, la produzione era regolamentata e limitata ad alcuni determinati poderi dai confini precisi: la DOC dell’epoca. E come oggi già allora non mancavano polemiche: «anche il Faustiniano è in fase di regresso da quando è in mano a gente che bada più alla quantità che alla qualità». Chissà quanto l’attuale Falerno assomiglia a quello bevuto da Plinio…

Al terzo posto si collocano i vini albani, antenati dei vini dei Castelli, dolci e raramente forti. Celebri erano anche i vini di Sorrento, sulla cui qualità però non c’era unanimità, anzi, Tiberio sosteneva che «i medici si erano messi d’accordo per conferire celebrità al vino di Sorrento che di per sé era solo un aceto di qualità», mentre Caligola lo definiva «uno svanito illustre».

Seguono in questa classifica i vini mamertini, quelli di Messina, amatissimi da Cesare, che li offrì per il banchetto in occasione del terzo consolato: e non mancavano i falsificatori, che spacciavano per mamertino il vino di Taormina.

L’elenco successivo dei vini italiani è ricchissimo e circostanziato, e abbraccia regioni tuttora dedicate alla viticoltura: si celebrano il vino di Luni e quello di Bolsena, il vino retico nel Veronese e quelli di Cesena, quelli Pugliesi e quelli calabresi. Attenzione invece ai vini di Pompei, che «provocano mal di testa fino a mezzogiorno dell’indomani».

A conclusione dell’elenco una considerazione semplice e illuminante: «È inutile voler enumerare tutte le specie, poiché una stessa vite dà risultati diversi a seconda dei luoghi».

Dall’estero: diffidare dei Galli

La qualità dei vini francesi non era apprezzata da Plinio e dai suoi contemporanei. Quello di Marsiglia era considerato un vino da taglio, ed è una delle migliori sorti che potessero capitare. «La rinomanza dei vini di Beziers rimane entro i confini delle Gallie. Sugli altri vini della Narbonense non si può dire nulla, poiché è stata allestita una fabbrica per colorarli affumicandoli e volesse il cielo non anche con erbe ed ingredienti nocivi! Infatti i commercianti usano perfino l’aloe per alterarne il gusto e il colore».

Miglior fortuna hanno agli occhi di Plinio i vini spagnoli: l’enologo apprezza in particolare i vini «di Tarragona e di Lauro, con quelli delle Isole Baleari, che competono con quelli italiani». E poi vini greci, egiziani, da Tripoli e da Petra, elencati con attenzione alle particolarità organolettiche e tecniche: gli abitanti di Cos aggiungevano acqua marina in notevole quantità al loro vino, che assumeva un gusto salato; un procedimento particolare come quello, chiamato talassite, che prevedeva l’invecchiamento del mosto in vasi calati nel mare. Una pratica che alcuni oggi riprendono.

Bianchi e rossi, dolci e passiti

Come ogni guida che si rispetti, anche gli scritti di Plinio classificano i vini in più tipologie: «i vini dolci sono meno profumati; più un vino è leggero, più ha profumo. I vini hanno quattro colori: bianco, giallo, rosso sangue, nero». Le varietà prodotte da uva passa hanno un sapore particolare, e tra queste le più apprezzate sono quelle di Creta e africane. «In Italia si produce un vino dall’uva che i Greci chiamano psitia, noi apiana, nonché dalla scripula, lasciando lungamente seccare al sole i grappoli sulla pianta o immergendoli nell’olio bollente».

Il procedimento migliore per ottenere il passito consisteva però nello staccare gli acini essiccati e immergerli in vino di ottima qualità perché si gonfiassero nuovamente, per poi spremerli. Il vino dolce era molto amato dai Romani, che lo preparavano con tecniche diverse: tra le altre il melitite si otteneva dal mosto bollito con una parte di miele e un poco di sale, mentre il deuteria, chiamato anche “vino dei lavoratori”, era un’alternativa povera, preparata facendo macerare nell’acqua la vinaccia.

Graditissimi anche i vini aromatizzati con la mirra, una moda che all’epoca di Plinio era considerata però già “antica”. Le diverse metodiche di lavorazione vengono descritte da Plinio con precisione e competenza. Una precisione e una sapienza tecnica che lo storico rivela anche nel trattare le pratiche di vinificazione e le modalità di conservazione.

Guida al consumatore (consapevole) antico

Plinio raccomanda di fare attenzione ai sistemi usati per conservare il vino in recipienti più o meno adatti: da evitare quelli trattati con cera o che hanno contenuto vino dolce, da preferire quelli usati per l’aceto.

Ovviamente mette in guardia dalle sofisticazioni: aggiunte di coloranti e aromi che rendevano il prodotto gradevole ma indigesto; «grazie a così numerosi veleni, il vino deve piacere per forza; e poi ci meravigliamo che faccia male!».

E non essendoci etichette stampate a tutelare il consumatore, si poteva ricorrere a uno stratagemma: «è prova che il vino comincia a guastarsi quando una lama di piombo, immersavi, cambia colore». Una volta portato a casa il vino, poi, occorre prendere alcune precauzioni: non tenere troppo vicini i dolia (i vasi) l’uno all’altro e prediligere quelli impeciati, evitando quelli a bocca larga; «i vini leggeri vanno conservati in dolia interrati, quelli forti in dolia esposti all’aria». Fondamentale è calcolare le fasi lunari per scegliere il momento migliore per “stappare” un vaso.

Ma il consiglio più importante è quello conclusivo: bere responsabilmente. Sono passati 2000 anni, ma la chiusura è affidata a questo messaggio, importante quanto attuale. Plinio descrive le terribili conseguenze che possono avere gli eccessi, il male fisico e morale cui può condurre l’ubriachezza. E tra gli alcolisti illustri nominati da Plinio va senz’altro ricordato Marco Antonio: secondo l’autore era tanto schiavo del vizio del bere che arrivò ad ammettere la propria dipendenza scrivendo un libro sulla sua ubriachezza, consapevole che «l’abitudine a bere ne accresce la voglia». Fonte: Linkiesta, Gastronomika,  Daniela Guaiti, 28.06.2022

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